UN INCONTRO ALL’OUTLET

di Antonio Scafaro 
Per la rubrica racconti e poesie, il nostro redattore ci racconta di un incontro…

Quale maschio, latino e non, una volta nella vita non ha sognato di conoscere una fotomodella di fama? Tutti noi ci siamo chiesti: ma queste donne, nella vita reale, esistono davvero e se sì, dove sono?

In un villaggio dello shopping, quale l’outlet di Serravalle, per esempio, dove a me è capitato di incontrarne una.

Ero in coda davanti al baracchino delle crepes, un triciclo tutto colorato e addobbato con gigantografie di nutella spalmata su grosse fette di pane. Nel suo minuscolo spazio, due ragazze, le cui gote rosse facevano ben intendere il caldo immagazzinato in quelpiccolo spazio, cucinavano una crepe dietro l’altra su cui spalmavano, senza alcuna riserva, palettate di crema di cioccolato, a cui aggiungevano nuvole di zucchero polverizzato.

Lei era davanti a me, mi superava in altezza almeno di quindici centimetri, per sentirmi meno piccolo guardai subito le sue scarpe, tacco dodici, il mio orgoglio si riprese qualche punto.” alla fine mi supera solo di qualche centimetro”, pensai.

Con finta noncuranza feci prima un passo di lato e, con malcelata indifferenza, mi piazzai a lato della ragazza, creando così una doppia fila. Incominciai a studiarla, lasciando per ultimo l’esplorazione del viso. 

I tacchi dodici mostravano una riga longitudinale di piccoli zirconi di un colore verdastro che abbellivano la semplicità della forma, su di essi appoggiava una tomaia lineare di pelle da cui partivano quattro laccetti che formavano un piccolo fiocco sormontato da uno zircone, sempre di colore vede, della grandezza di un’oliva.

I piedi, di tipo egizio, formavano un tutt’uno con i sandali, le dita, con la perfetta progressione di altezza, mi fecero venire in mente una scala musicale discendente. Dalle caviglie, a cui un braccialetto d’oro, con la scritta “Love” donava un pizzico di civetteria, si elevavano, come uno sbuffo di geiger, gambe affusolate, ma al contempo con una tonicità eccitante che si evidenziava quando la ragazza cambiava postura, la muscolatura infatti guizzava progressivamente e maliziosamente fin sotto le ginocchia.

Proprio sopra quest’ultima il bordo di seta di un abito a sottoveste, di un intenso azzurro fiordaliso, limitava la vista al resto del corpo. L’abito fasciava in modo sensuale il deretano che mostrava la sua forma di cuore rovesciato e la leggerezza della seta lasciava intravedere, in modo discreto, l’intimo alla brasiliana. Il lato B era una continuazione della forma a cucchiaio, al limite della lordosi, del basso schiena, Il vestito si appoggiava su un dorso diritto, tonico con i muscoli dorsali che si opponevano perfettamente alla grandezza dei seni, una terza calcolai, di forma sferica, simmetrici.

L’insieme, non so perché, mi richiamò l’immagine di una perfetta chiave di violino, rivestita di seta.

Proprio nel momento in cui mi apprestavo a guardarla in viso si girò e, con voce armoniosa, e carezzevole, mi disse:

– Le crepes sono molto buone, queste ragazze sono bravissime, sono qui da due giorni per la sfilata annuale e le ho assaggiate quasi tutte, mi manca solo quella al GrandMarnier.

Così dicendo si avvicinò al bancone perché era arrivato il suo turno. La osservai mentre conversava amichevolmente con le ragazze del triciclo, aveva un viso a diamante con gli zigomi prominenti che mettevano in risalto il naso a taglio diritto, gli occhi erano grandi e mi confermarono l’idea, che a prima vista mi ero fatta di lei, di una ragazza con un’apertura mentale incredibile.

La bocca con labbra ad arco di Cupìdo, carnose, quasi sicuramente aiutate da qualche iniezione di botulino, conferivano sensualità e sollecitavano piacevoli sensazioni.

Anche i lobi delle orecchie, in parte nascosti da folti e lunghi capelli lisci e spessi, di un castano scuro con qualche mesches più chiara che regalavano loro più luce, erano adornati da orecchini con la scritta “Love” che continuava il messaggio d’amore del braccialetto alla caviglia e di quelli che adornavano i polsi, quest’ultimi accompagnavano mani lunghe e affusolate, da pianista, abbellite da unghie lunghe, a mandorla, color cipria.

Completava la parure una sottile collana in oro, anch’essa unita dalla scritta “Love” che ingentiliva un collo lungo, da cigno, ma non “Modiglianesco”, quella giusta lunghezza che seduce gli uomini.

Due spalline sottili appoggiate su spalle di color ambrato, permettevano al vestito di distribuirsi perfettamente sul corpo abbronzato.

Si allontanò con grazia, con la sua apparente fragilità fisica e, mentre con sensualità e attenzione avvicinava alla bocca la crepe, si girò e mi strizzò pudicamente l’occhio.

Con la bocca aperta e gli occhi spalancati, come lo stupore tipico degli animali, mi avvicinai al triciclo per ordinare la mia crepe. Le ragazze mi accolsero con un sorriso malizioso e posso immaginare i loro commenti divertiti quando mi allontanai con il mio dolce in mano che, non so perché, quel giorno non aveva alcun sapore.

La speranza: un racconto breve di Antonio Scafaro

Antonio Scafaro in occasione della "Giornata della Memoria” ci propone questo racconto breve, "La speranza", da lui scritto. 
LA SPERANZA ( Il giorno della memoria)

Franz nacque nell’inferno e ne uscì all’età di cinque anni.
Dapprima fu adottato da una famiglia russa, in seguito, per inspiegabili cavilli WhatsApp Image 2020-01-28 at 18.56.24burocratici, fu affidato a un orfanotrofio a Singapore. Lì rimase fino all’età di 12 anni, finalmente ritornò a casa, in Germania, adottato da una coppia senza figli, che lo amò come proprio. Studiò fino a laurearsi in ingegneria, imparò perfettamente 11 lingue e, nonostante la sua menomazione e le infinite peripezie, amava la vita.
Una domenica tornò a far visita ai suoi genitori adottivi, dopo pranzo, mentre   girovagava per la campagna, notò un casolare abbandonato.
Entrò spinto dalla curiosità e notò, in una stanza con muri di mattoni scrostati e con il pavimento in terra cruda, un letto in ferro battuto con la sola testiera e pediera, senza rete.
Avvertì un leggero malore, fu scosso da brividi e un ricordo gli salì con violenza: una WhatsApp Image 2020-01-28 at 18.57.23stanza piena di luci e adulti in camice bianco che ridevano mentre lo legavano a un letto di ferro.
Aveva bisogno di ricordare e di capire, doveva tornare ai luoghi della sua fanciullezza, nel tenebroso inferno.
Il treno per Dachau partiva alle nove e quarantacinque, fu colpito dalla moltitudine di passeggeri, fu infastidito dal vociare confuso, una babilonia, ma erano al corrente del luogo dove li avrebbe traghettati Caronte?
Lui purtroppo sì, lo sapeva.
ARBEIT MACHT FREI : il lavoro rende liberi.
La scritta lo intimorì nonostante l’avesse avuta sotto gli occhi per cinque anni. Attraversò la sala dei ricordi, arrivò alle baracche, vergognosamente linde e ordinate nella loro WhatsApp Image 2020-01-28 at 18.57.19glaciale normalità. Si diresse al blocco degli esperimenti medici, appena varcò la soglia rimase pietrificato come se avesse incrociato lo sguardo delle Gorgoni. Il letto era lì nello stesso posto di sessanta anni prima, capì il perché della strana sensazione provata nel casolare.
Si rivide bambino, terrorizzato mentre possenti braccia lo bloccavano al letto, ricordò di essersi svegliato in una enorme stanza, circondato da adulti e bambini piangenti, lui non aveva lacrime, nessuno gli aveva trasmesso sentimenti, era nato nel campo, non aveva conosciuto chi l’aveva concepito.
Stupito notò che gli mancava il braccio destro, la benda sporca di sangue copriva il WhatsApp Image 2020-01-28 at 18.57.24moncherino poco sopra il polso.
L’innocenza dei bambini non gli concesse di provare odio, il solo sentimento che gli ispirò il suo animo gentile fu di stupore… perché, si chiese: lui era il campo, lui era loro o almeno lo credeva.
Lasciò il campo di concentramento sereno, il peso di sessanta anni di tristi ricordi lo affidò al firmamento, la scritta sotto la Menorah, che recitava “Per non dimenticare” riaccese in lui la speranza che, come Pandora, aveva tenuta ben stretta nel suo animo angosciato.

Salame di Varzi: concentrazione di fragranze, prodotto di eccellenza artigianale

di Antonio Scafaro
Antonio Scafaro ci accompagna alla scoperta del Salame di Varzi.

Quando si parla di eccellenze del territorio si fa riferimento a culture e tradizioni locali.
L’artigianato rappresenta la fusione di questi due aspetti e li valorizza grazie a una attività lavorativa basata sulla memoria del passato.
Tutto ciò ho avuto la possibilità di riscontrarlo quando, dopo aver percorso un tratto della Via del Sale che da Varzi mi ha portato alle Capanne di Cosola, ho potuto assaggiare, in loco, il famoso salame di Varzi, un prodotto della Val Staffora, nell’Oltrepò Pavese, riconosciuto D.O.P. dalla Comunità Europea.
Una ricerca su internet mi ha portato alla pagina del “Consorzio di Tutela”, dove si racconta che la produzione fu introdotta dai Longobardi nel Medioevo e perfezionata dai monaci Benedettini.
Ma io volevo sapere di più sulla storia di questo salume e non mi ritenevo soddisfatto da notizie ufficiali e pragmatiche e così, accompagnato dal mio amico Mario, un ottimo conoscitore di quelle zone, ci siamo recati in uno dei 15 comuni dove viene prodotta questa specialità.

Antonio Scafaro

La nostra meta è stata Val di Nizza, un comune di circa 600 abitanti, a 550 metri d’altitudine e, precisamente, l’Antica Salumeria Fronti, dove i proprietari Domenico e Roberta, conoscenti di Mario, ci hanno accolto con cordialità.
La concentrazione di fragranze ci ha subito stupito, gli odori dei salami e delle spezie in particolare, ci hanno dato il benvenuto e i recettori olfattivi sono entrati in azione facendoci assaporare mentalmente la bontà del salame.
Purtroppo il signor Domenico non ci ha potuto dedicare molto del suo tempo, perché impegnato nella lavorazione dei prodotti del laboratorio.
Ma, durante il poco tempo a noi dedicato, ci è stato spiegato con molta professionalità l’importanza della stagionatura, responsabile dei vari profumi che il nostro bulbo olfattivo recepisce, l’uso di parti nobile del maiale per la produzione del prodotto e la vista al taglio, dove a risaltare è il rosso e la parte grassa bianca.
Ma a parte questi dati tecnici, che al consumatore possono interessare marginalmente, la cosa importante da sottolineare è la qualità del prodotto, qualità che si esalta grazie all’esperienza e ai segreti tramandati di padre in figlio, ed è grazie a questa alta qualità e alla bontà degli insaccati che la crisi dovuta alla pandemia ha colpito solo marginalmente questi artigiani. Infatti, la perdita di prodotti venduti ai ristoratori, è stata in buona parte compensata dall’aumento di richieste da parte dei consumatori, in quanto l’isolamento forzato ha regalato loro più tempo da dedicare alla cucina e al buon cibo.
Forse quella dei Longobardi e dei monaci Benedettini è solamente una bella favola o forse si è trattato di uno interscambio culturale con la gente del luogo, che già dai tempi antichi usavano trattare la carne del maiale per riserva alimentare da usare nei lunghi inverni.

immagine di repertorio

Di chiunque sia il merito, c’è da sottolineare la capacità del popolo di queste belle valli di tramandare di generazione in generazione i segreti di questa nobile lavorazione, e grazie alla nascita delle Comunità Montane, si è potuto valorizzare e salvaguardare queste eccellenze gastronomiche conosciute in tutto il mondo.
Quando finalmente si potrà uscire da questa disavventura sanitaria, che ci ha privato della libertà, fate un giro per queste valli, fermatevi ad assaggiare i prodotti locali, capirete con che passione quest’arte manuale viene esercitata e il vostro palato vi ringrazierà per le belle sensazioni che gli regalerete.
Buon appetito.

Nascosti dietro una maschera

di Antonio Scafaro
Oggi ospitiamo una interessante e attuale riflessione che ci propone Antonio Scafaro.

CUCÙ SETTETE: alzi la mano chi tra di voi lettori, genitori e poi nonni, non ha mai giocato, con figli e nipoti, a questo famoso e arcaico nascondino.
Tutti noi, crescendo, abbiamo continuato questo gioco dell’apparire e dell’essere, da adolescenti e da adulti, con la millenaria tradizione del Carnevale, dove le maschere assopiscono l’io per esplodere in finzioni di apparenza.
Il Carnevale, nato come rito pagano di trasgressione degli obblighi sociali per un giorno all’anno, fu adottato dal cristianesimo per festeggiare gli ultimi giorni prima della preparazione alla quaresima.

In questi tre giorni è in uso travestirsi e soprattutto nascondere il viso dietro maschere. Da sempre il comportamento umano è stato influenzato e manipolato dal giudizio della società, dal come si pensa che gli altri ci vorrebbero.
Oggigiorno, con la pubblicità che condiziona la nostra esistenza a favore del consumismo, tanti si vedono costretti a indossare una maschera per apparire come credono che la società li voglia, la vita dunque, viene vissuta in funzione dell’accettazione degli altri, l’io è sopito a favore di una mente che guarda all’immagine che non deve urtare contro i pregiudizi della società.

Nel giorno di carnevale la maschera parvente lascia finalmente il posto a un’apparenza posticcia, ci si traveste per nostalgia storica, per goliardia, per emulazione di personaggi famosi, per amore di altre culture  o per quello che forse si vorrebbe essere:la meretrice da angelo, il ricco da povero, il povero da signore.
I pudori finalmente vengono anestetizzati, per regalare libertà alla natura primordiale di ognuno di noi.
Il giudizio degli altri quindi, vincola negativamente la nostra esistenza, facendoci vivere un non essere.
Comportiamoci dunque come se fosse carnevale tutto l’anno, liberi da assurdi vincoli estetici e di parvenza, liberi dalla visione altrui e liberi anche di indossare una maschera, se questo aiuta a donarci serenità.

Antonio Scafaro: la nostra volontà a prevalere sul destino

di Antonio Scafaro

Venti righe per parlare della SPERANZA.
Un’impresa ardua.
Analizzando gli scritti degli antichi, dai greci, ai romani, dai grandi filosofi di fine secolo fino all’attuale Papa Francesco, si nota che la speranza assume, agli occhi degli uomini, caratteristiche diverse.
I greci la custodivano nel vaso di Pandora quale panacea per l’umanità, i romani la veneravano come una dea, Spinoza giudicava l’uomo libero solo se si liberava della speranza che impedisce all’uomo di raggiungere la perfezione, per i cristiani la speranza è la promessa della resurrezione, Papa Francesco la definisce “una virtù rischiosa” perché non predefinita ma da guadagnarsi con una vita retta e per Papa Benedetto XVI è “Un dono della Fede”.
Ma per noi comuni mortali, che di filosofia e di dogmi abbiamo nozioni perlopiù scolastiche (almeno per me) cosa rappresenta la speranza?
La Speranza è la vita, diciamo che è l’ultima a morire perché ci aggrappiamo ad essa nei momenti bui, ci dà la forza per superare le difficoltà.
Senza di essa la vita perderebbe lievito, la speranza è la felicità, è stimolo per il futuro.
Pip, il protagonista di Dickens in “Grandi Speranze” vive sognando un posto migliore nella società, tutti noi abbiamo dei sogni che vorremmo realizzare ed è grazie alla speranza che riusciamo a superare gli ostacoli che la vita ci oppone. Essa dunque rappresenta il cuore pulsante della nostra esistenza, dei nostri sogni e quindi del nostro futuro.
Guardiamo dunque a quest’ àncora, come la rappresentavano i cristiani, con fiducia, sia la nostra volontà a prevalere sul destino e coltiviamola durante tutta la nostra esistenza, non permettiamo alla vecchiaia,come spesso succede, di rinunciare a questa grande “virtù”.

Umbria: Il Cammino dei Borghi Silenti

di Antonio Scafaro
Il racconto di una “camminata” in terra umbra seguendo un  percorso inaugurato appena terminato il lockdown. Un percorso tra Terni e Orvieto, una zona poco conosciuta dal turismo però molto suggestiva.

Camminare presuppone la presenza di quattro fattori: scarpe collaudate, zaino ergonomico, allenamento e buona compagnia.

I primi tre erano già stati rodati, il quarto era un’incognita perché non avevo mai camminato per più giorni con questi amici viandanti. È stata una scelta azzeccata, Alessio, Roberto e Silvio sono stati perfetti compagni di viaggio.
Ai primi di settembre mi hanno accompagnato in questo nuovo cammino, inaugurato subito dopo la fine del “Lockdown”.

L’ideatore, Marco Fioroni, guida escursionistica e grande camminatore, ha già percorso quasi trentamila chilometri a piedi e non ha ancora compiuto quarant’anni. Ha ideato questo percorso, racchiuso fra Terni e Orvieto, per l’amore verso la sua Regione e per far conoscere una parte dell’ Umbria meno battuta dal turismo.
Il cammino dei Borghi Silenti”, questo è l’appellativo che è stato dato a questo percorso, attraversa ben dodici borghi medioevali, alcuni quasi disabitati, altri seclusi, ma tutti in perfetto stato di conservazione. È un trekking ad anello di ottantasei chilometri in mezzo alla natura, si cammina alle pendici e sulle alture dei monti Amerini, si attraversano splendidi vigneti, boschi di castagno, di quercia, si incontrano infinite varietà di alberi, aceri, lecci, roverelle e altro ancora, si attraversano pascoli d’alta quota con mucche allo stato brado e,soprattutto il silenzio, è il protagonista assoluto.

Ti fa compagnia nelle lunghe e faticose salite, nei luoghi di storia, fra rovine di età romana e resti di civiltà etrusca, nelle assolate alture e nei freschi sentieri in boschi, dove il sole, timido, si intravede fra rari squarci di cielo che ricordano mestamente, al pellegrino, che non sta vivendo in una favola.
È un cammino di quattro o più giorni, che ti fa viaggiare nella storia, nella natura e nella ospitalità umbra. Quest’ultima è stata l’apice del gradimento di questo percorso, si fa un’escursione a ritroso nei puri sentimenti che tutti noi rimpiangiamo, come un ricordo dei passati decenni.
Nel popolo Umbro permane la gentilezza, l’amore per il prossimo, la generosità, il rispetto per l’ospite che, come nell’antichità era considerato sacro, ancora oggi qui è guardato con benevola fratellanza.
Non mi soffermo sulla descrizione delle tappe, né tantomeno sulla descrizione del cammino che, con bravura e competenza è già ben dettagliato nella guida e sul sito internet.

Permettetemi di indugiare un momento di tempo sui miei compagni di viaggio. Alessio, ventiquattro anni, la nostra mascotte. Come lui, anche Roberto e Silvio erano alla loro prima esperienza di cammino di più giorni. Ho letto nei loro occhi preoccupazione, ansia tipica dell’ignoto, del nuovo sconosciuto. A dire il vero una certa preoccupazione ce l’avevo anch’io, in particolare per Silvio, fermo da anni nella pratica dell’escursione a piedi, per motivi di lavoro.
Il tutto è stato però superato brillantemente dall’intesa che si è formata fin dal viaggio di avvicinamento alla meta. Sono stati bravi, ho trovato in loro amici, fratelli, camminatori instancabili, mai un lamento, né per il caldo, né per quelle che sembravano impossibili salite, con pendenze d’alta quota. Ci ha accompagnato per ottantasei chilometri la felicità, la gioia che nasceva ad ogni superamento di difficoltà, abbiamo camminato in quattro ma l’intesa era unica, una squadra perfetta come forgiata da anni di strada percorsa insieme.

Sono felice, ho trovato i miei compagni di viaggio ideali, con loro sento che potrò in futuro affrontare qualunque percorso e qualunque avversità,perché, come diceva Nietzsche, “Tutti i grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina”.
Esorto dunque, quanti leggeranno questo articolo, a riprendere il controllo della loro vita, che si realizza tornando ai primordiali rapporti con la natura, alla prima sfida che la vita ci pone, fare i primi passi, perché il camminare, il contatto dei piedi e del corpo con la terra madre è come un piacevole viaggio che ci riporta nel grembo materno, il momento più magico, appagante e affascinate nella vita di ogni essere vivente.

Sulla “Via del Sale”: Varzi – Portofino

di Antonio Scafaro
Il racconto di una giornata percorrendo un tratto della Via del Sale, quello che porta da Varzi al monte Chiappo dove Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna si incontrano.

Le vie del sale erano nell’antichità, sentieri che i commercianti percorrevano per portare, dal mare alle pianure e in montagna, il sale, questo “oro” utile per la conservazione degli alimenti, per la produzione di formaggi e insaccati e anche per la concia delle pelli e della tintura.
La scorsa settimana mi sono avventurato su un percorso di una delle Vie del Sale che, dalla pianura Padana arriva in Liguria, nel parco di Portofino. Con un amico ho affrontato la prima tappa che da Varzi, comune dell’OltrepòPavese a 400 metri di altitudine, porta al monte Chiappo, a 1700 metri d’altitudine, sull’Appennino Ligure, ove si incrociano i confini di tre regioni, Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna.

Partiti alle otto del mattino, dopo 3 chilometri di salita impegnativa, siamo arrivati a Monteforte, piccola frazione con poche case ancora abitate, dove si può ammirare la chiesa di San Colombano Abate “Sancto Columbano Dicatum” che, dicono i pochi abitanti rimasti, abbia 1000 anni.
Rifornitici di acqua all’unica fonte lungo questa tappa, siamo arrivati, dopo altri 4 chilometri di salita, al paese di Castellaro, dopo è possibile fare una sosta all’unico ristorante-bar del paese, dove è di casa la gentilezza e la disponibilità verso i camminatori.
Da questo punto in poi non si trovano altri segni di vita fino all’albergo Capanne di Cosola, 100 metri di dislivello sotto il monte Chiappo, che è il punto di arrivo della prima tappa.
In questo lungo tratto, tutto in salita, dove si alternano diversi livelli di difficoltà, si trovano due bivacchi, uno al Pian della Mora a 1350m di altitudine e l’altro a 1470m di altitudine, al piano della Bonazza, sotto il Monte Bagnolo.

Sono dei caseggiati in legno, dove è possibile accendere un fuoco, mangiare ai tavoli, sia all’interno che fuori, e ripararsi in caso di necessità, perché la montagna è imprevedibile e bisogna sempre essere pronti a fronteggiare qualsiasi avversità, come ricorda una didascalia del CAI posta al primo bivacco: “Estate e inverno, la montagna regala sempre grandi emozioni, frequentala in libertà, con entusiasmo, consapevolezza e ragionevole prudenza”.
Un altro cartello ci racconta la storia del bivacco e ci dice che è possibile incontrare Volpi, Caprioli, Scoiattoli, Lupi e Formiche Rufe. Uno Scoiattolo ci ha fatto compagnia mentre mangiavamo un panino al primo bivacco, un Capriolo ci ha osservato e seguito per un po’ sul sentiero di ritorno, il Lupo fa vita notturna, quindi difficilmente lo si può vedere e, per nostra fortuna, non abbiamo avuto incontri con la Formica Rufa, che si difende lanciando getti di acido folico, veleno urticante, anche a 30 cm di distanza.

La stanchezza, che non si può negare sarà presente su un percorso classificato E, escursionistico sulla scala dei livelli, sarà ricompensata dalla bellezza dei boschi, dalle distese di fiori che variano dalle campanelle alla genziana, dal narciso al geranio selvatico, dalle cascate di fiori dei maggiociondoli ( LaburnumAnagyroides) che saranno la nostra volta celeste nell’ultimo tratto, fino alle pendici del monte Chiappo. E cosa dire dei cavalli allo stato brado che si fermano a salutarti, e docili, si fanno accarezzare forse per augurarti un buon cammino.
E se alzi gli occhi al cielo, quando lasci la frescura dei boschi secolari, puoi osservare il volo delle Poiane e gli appostamenti, sospesi in aria, del Gheppio.
È la bellezza della natura, che solo il camminare a piedi può far apprezzare.

Bruce Chatwin, scrittore inglese di racconti di viaggi e romanzi, scrisse: “La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi”.
Quindi, con prudenza, ritorniamo a camminare. Solo così  torneremo ad apprezzare il fantastico mondo che ci circonda, un passo dopo l’altro ci permetterà di riscoprire le bellezze del creato che la fretta, uno dei peggior nemici dell’uomo moderno, ci tiene nascoste per indirizzarci verso mere illusioni di felicità.

Da “Vivere non basta” di Marcello Veneziani una riflessione sul padre

di Antonio Scafaro
Il libro di Marcello Veneziani libro “Vivere non basta. Lettere a Seneca sulla felicità”, e un suo passaggio in particolare, portano a una riflessione sul padre e sul momento della sua perdita e del vuoto che lascia.

Quando muore tuo padre tu vai in prima linea, non puoi più nasconderti dietro di lui, devi guardare in faccia la vita e la morte, cessi di essere figlio e ti senti ormai solo, interamente padre”.

Marcello Veneziani

Rileggete queste righe ancora una volta, però con calma, e vedrete quanta verità c’è in questa delicata espressione di pensiero.
Non so se parole più belle siano state scritte per descrivere il vuoto che lascia la perdita di un genitore.
Marcello Veneziani, giornalista e scrittore, è l’autore di questi versi, tratti dal libro “Vivere non basta. Lettere a Seneca sulla felicità”, nel capitolo “Sui padri e sui figli”.
Il libro è stato pubblicato nel 2001, due anni dopo la morte di mio padre.
Lessi il libro tutto d’un fiato, mi ritrovai in ogni parola, in ogni descrizione, mi fu anche di aiuto perché non mi sentii solo nel mio dolore, i suoi sentimenti erano i miei.
La perdita di un genitore lascia una crepa nelle fondamenta della vita di ognuno di noi, alcuni riescono a ripararla, altri ci convivono, ma la stabilità emotiva spesso perde l’uniformità.

Antonio Scafaro

Il padre, fin da quando siamo cuccioli, rappresenta il recinto dentro cui culliamo la nostra vita in tutta sicurezza, questa nuvola di protezione ci accompagna sempre, anche il genitore ottantenne rimane il punto fermo della nostra esistenza, e neppure la sua fragilità, che il tempo inesorabilmente gli affliggerà, farà diminuire la nostra fiducia in lui. La sua sola presenza, indipendentemente dall’età e dalla fisiologica decadenza fisica, sarà la nostra assicurazione contro le difficoltà della vita.
Lo riassume, in modo sublime, Marcello Veneziani, in queste parole scritte in occasione del conferimento a suo padre della medaglia d’oro di benemerito, per la scuola e la cultura: “l’affetto e l’onore tributato a un padre avanti negli anni fa parte del nostro alfabeto elementare, universale, dell’amore filiale, reso ancora più tenero dall’età veneranda”.
È un binomio esistenziale: la sua presenza assicura la nostra serenità.
Ma quando il genitore ci lascia, crolla il muro di protezione che ci eravamo costruiti dalla nascita e da quel varco entreranno i demoni, da sempre presenti nella vita di ognuno, ma che la figura paterna teneva lontano caricandoli sulle sue forti spalle, per alleggerire l’esistenza ai propri figli.
L’istinto di sopravvivenza fa sì che la mente superi l’esperienza, forse più intensa nella vita umana, il lutto. Come una ruota che gira, saranno poi i figli che provvederanno a riparare la breccia, perché la vita alterna i ruoli, tu figlio diventi il muro di cinta, il cerchio di protezione, diventi tu padre, il faro cui i tuoi figli guarderanno con fiducia, quando saranno persi nella nebbia della vita.

Ma questo nuovo ruolo, ereditato naturalmente, non riuscirà mai a riparare definitivamente la ferita che la perdita del genitore ha lasciato nel tuo cuore e allora spesso sopravvivi, pur sapendo che la sopravvivenza rende infelici, perché toglie linearità all’esistenza.
E allora noi esseri viventi, che trascorriamo la nostra esistenza su un globo che gira sempre su sé stesso, dobbiamo guardare alla nostra vita con questa filosofia, la vita fa il girotondo, i padri sono stati figli, i figli diventeranno padri, tutto ritorna sempre agli albori. 
Anche la vita!

Leggere Gabriel Garcia Marquez provoca travolgenti emozioni

di Antonio Scafaro
Una interessante “riflessione” che ci racconta come leggere Gabriel Garcia Marquez.

GABRIEL GARCIA MARQUEZ: pronunciando questo nome si ha l’impressione di arrotolare il suono, distribuendolo dalla gola alla lingua con l’aiuto del palato, e chiudendolo infine tra le labbra da dove, con dolcezza, si dissolverà nel vento.

Una sensazione, resa più piacevole, se ad esso si associano i ricordi dei capolavori letterari scritti da questo grande giornalista, scrittore e saggista colombiano.
Gabo, così soprannominato dagli amici, è da sempre il mio scrittore prediletto.
È da pochi giorni che ho finito di leggere, per la terza volta, il suo romanzo capolavoro del novecento “Cent’anni di solitudine”, che gli valse il premio Nobel per la letteratura nel 1982. 
È sempre un’emozione, ripercorrere nell’arco di un secolo, la storia di Macondo, villaggio dell’entroterra caraibico, quasi primitivo, dove il contatto con il mondo esterno è scandito annualmente dall’arrivo degli zingari, con il loro enigmatico e affascinante capo Melquiades, portatore di prodigiose, a volte assurde, scoperte.
Le quattrocento pagine del romanzo ti legano indissolubilmente ai fantasiosi e magici componenti della famiglia Buendìa, in particolare ai capostipiti Josè Arcadio e Ursula. Il primo, sognatore e avventuroso, vive in un proprio mondo di illusioni fino alla fine dei suoi giorni.

È Ursula invece, che ci accompagna in questa saga secolare con la sua forza e la sua stabilità, cercando di tenere sempre unita la famiglia, nonostante le numerose e imprevedibili disavventure, che ci accompagneranno lungo tutto il racconto.
Il lettore diventa parte di questa famiglia, affezionandosi ad essa, partecipando alle sue gioie e disgrazie, arrivando al punto di accettare e credere agli irreali accadimenti che, numerosi, si presenteranno.
La solitudine di Macondo accompagnerà e coinvolgerà il lettore, i fantasiosi personaggi lo prenderanno per mano e lo accompagneranno nelle loro scoperte, nelle rivoluzioni, negli amori, nei misteri.

E tutto ciò rimarrà impresso nel suo animo, e gli farà amare questo secolare racconto e forse, come è successo a me, verrà custodito nella scatola dei ricordi della mente, dove gelosamente preserviamo le nostre vestigia più belle.
Leggetelo con calma, fatevi coinvolgere, amatelo e sarete ricompensati da travolgenti emozioni.
Buona lettura.

Credere nel domani

di Antonio Scafaro
Oggi vi proponiamo una riflessione sul credere nel domani, sulla speranza, sull’incoraggiamento. 

#ANDRÀTUTTOBENE, #RINASCERÒ,RINASCERAI, questi sono due, dei tanti auguri, che in questi mesi rivolgiamo a noi stessi per farci coraggio.
Perché lo facciamo? Forse per una semplice questione di sopravvivenza, in quanto WhatsApp Image 2020-04-29 at 16.23.05abbiamo bisogno di credere in un miglioramento, di tornare allo stato di benessere che ci dava tranquillità e stabilità emotiva, anche se spesso non ne eravamo consapevoli.
In sintesi, abbiamo bisogno di sperare.
Ma questo lo facciamo tutti i giorni.
L’essere umano, anzi gli esseri viventi, dal virus (sì, anche quello) ai miceti, dagli invertebrati ai mammiferi, sono esseri perfetti, pur nella loro complessità. L’essere umano, grazie o per colpa della sua intelligenza, (non solo pratica, quest’ultima patrimonio anche degli WhatsApp Image 2020-04-06 at 18.39.54animali), ma intelligenza intesa come “capacità più ampia e profonda di capire ciò che ci circonda, afferrare le cose, attribuirgli un significato o scoprire il da farsi”come descritta dal “Mainstream Science on Intelligence” nel 1994, scambia spesso la perfezione con l’immortalità.
Sì, proprio così, specie tra l’età del giovane adulto e, la prima età adulta che termina intorno ai quarant’anni, l’essere umano crede che il suo corpo possa superare qualsiasi avversità finché un giorno si sveglia e… scopre la cruda realtà e cioè, che il corpo umano possa perdere la compiutezza, si possa ammalare e, con l’insorgere di questa mossa imprevista nello scacchiere della vita, scopre di aver bisogno della speranza e dell’incoraggiamento.
Questi sentimenti sono trasmessi fin dalla nascita: su signora spinga, ancora uno sforzo – dai piccolo respira, apriti alla vita – fatti coraggio, devi combattere e ne verrai fuori.
Il cordone ombelicato viene reciso per costringerci ad abbandonare la vita parassitaria e vivere autonomamente la nostra esistenza, ma la forza e la sicurezza, che per nove mesi WhatsApp Image 2020-04-29 at 16.23.05 (1)ci sono state donate dalla nostra mamma, figlia di Eva, progenitrice del genere umano, vengono recisi anch’essi e allora cos’altro resta all’essere umano, per traghettare la sua esistenza dalla nascita alla morte, se non la speranza e l’esortazione ad andare avanti?
Ho detto due grosse bugie nella mia vita, a mio padre, quando mi chiese “sto morendo?” e al mio migliore amico, quando mi interrogò “ce la farò?”: nel primo caso prevalse l’amore egoistico di figlio, nel secondo la vigliaccheria, che Hemingway definì la più grande sfortuna che può avere un uomo.
Però, a distanza di anni, mi sono sempre più convinto che non è stato un errore essere egoista e vigliacco, perché avrei tolto loro la speranza (“Spes contra spem”dicevano i WhatsApp Image 2020-04-29 at 16.23.04latini, credere sempre in un futuro migliore) perché senza di essa, diventa inutile ogni tentativo di conforto, di sprone ad andare avanti.
Ben vengano dunque gli odierni hastag di incoraggiamento per dare vitalità a un’esistenza che rischia di appiattirsi nella noia e nella conseguente depressione, per la paura del futuro e per l’isolamento forzato, condizione deleteria per l’essere umano, creato per vivere in comunità.
Solo con queste prospettive di positività futura dunque, potremo cantare un domani, tutti insieme, a squarciagola: Siamo fuori dal tunnel…