Ciao cuore mio come stai? Cosa fai? Ma dove sei? Perché non sei ancora venuto a prendermi? Ma perché non mi porti via? Me lo avevi promesso che lo avresti fatto, mi avevi scritto anche tante belle cose ed io ti credevo e ti credo anche adesso. Dai amore vieni qui da me, corri tra le mie braccia ti prego, basta soffrire, basta non dormire la notte, basta avere il cuore affranto, basta farci sopraffare da chi non merita la nostra tristezza. Io ti amo tanto, ti ho sempre amato e ti amerò per tutta la vita e tu questo lo devi sapere ed esserne certo adesso per sempre, tu sei la mia vita io l’ho detto solo a te e nessuno mai potrà essere nel mio cuore come ci sei tu… tu sempre solo tu.
Sai? Capita una volta sola nella vita di incontrare una persona alla quale non serve parlare ma basta guardarla negli occhi per capire tutto e “quegli occhi ce li hai solo per quegli occhi li” è in assoluto la frase che più ci rappresenta. Una volta tu mi hai scritto “tu sei la mia famiglia” ed io quella frase su quel foglio non me la dimentico, non dimenticarlo nemmeno tu, non dimenticarti di noi, non lo fare per favore e se c’è ancora una fiammella d’amore ti prego non farla spegnere. Perché per me esisti solo tu, sempre e solo tu.
Ancora una puntata del racconto di Roberta Pelizer, una vicenda intricata e avvincente.
Denaro, segreti e bugie… di Roberta Pelizer
«Io credevo che la faccenda si fosse chiusa al mare e che tutti eravamo rientrati ognuno nella propria casa e nel proprio Stato senza problemi, invece, subito dopo le vacanze di Natale mi è arrivata una strana telefonata ed era proprio il papà di Olga il quale mi ha detto che la figlia dopo quella vacanza non si è mai più ripresa perché ingerito qualcosa di strano che le ha portato un’allergia che la sta costringendo a letto con una forma quasi vegetale e la cosa assurda è che accusa me di tutto questo ma io ti giuro Miriam che non c’entro niente, non sono io a darle quella robaccia quando sono arrivato tutto il casino era già successo!» «Ho capito Matteo, comprendo tutto quello che mi stai raccontando ma in tutto ciò non capisco come siamo potuti arrivare alla distruzione della nostra famiglia con la morte di tuo padre e dopo ed in tutto ciò sto scoprendo delle cose assurde, ieri ad esempio mentre sistemavo i vestiti di Filippo ho trovato una valigetta chiusa a chiave e dopo averla scassinata ho trovato alcuni documenti Che contenevano informazioni riguardo ad un conto in Svizzera del quale non ne ho mai saputo l’esistenza e ti assicuro caro mio che stanno succedendo delle cose assurde ed ho la bruttissima sensazione che siano tutte legate tra di loro e tu purtroppo sei il perno di questa matassa
Tu che sei sempre stato un bravo bambino, taciturno, obbediente e addirittura a volte timido ti sei trasformato in poco tempo in una persona che non riconosco più e addirittura sei implicato nell’assassinio di tuo padre perché così è e dato che la sua morte non è stata casuale ma voluta E da quanto mi sembra di capire c’entra la tua amica e quello che avete fatto in quella maledetta vacanza. Ora ti chiedo gentilmente di dirmi per filo e per segno che cosa vi siete detti in quella m telefonata perché da li posso iniziare a capire che cosa sia realmente successo… avanti Matteo spiegami una volta per tutte chi sei diventato e perché hai lasciato che qualcuno potesse provocare così tanto dolore a tutti noi.» «Hai ragione Miriam io vi dovevo chiedere aiuto sin da subito come ho sempre fatto ma ho sbagliato perché ho agito di testa mia perché vedi io sono sempre dipeso da mio padre non muovo un dito se non glielo chiedevo e soprattutto se non mi dava l’approvazione ho fatto tutto quello che ha voluto lui per tutta la mia vita e per la prima volta mi si è presentata l’occasione di riscattarmi di far vedere chi sono di farmi valere ma mi sbagliavo perché io sono solo un ricco moccioso cresciuto nella bambagia e non avevo la più pallida idea di che cosa avrei dovuto affrontare e soprattutto a cosa sarei dovuto andare incontro e mi sento veramente un verme per tutto questo ed ogni giorno penso che su quella barca dovevo esserci io e non mio padre…»
Proseguiamo oggi con il settimo capitolo di “Amore oltre ogni confine”, il primo romanzo breve di Giulia Quaranta Provenzano. Scritto ed edito nel 2013, con il Centro Editoriale Imperiese, il detto libro ha dato avvio ad innumerevoli altre opere della trentunenne nostra collaboratrice residente in Liguria.
“Amore oltre ogni confine” di Giulia Quaranta Provenzano
7. DOPO UN ASSORDANTE SILENZIO – Arrivò la fine di agosto e Robert, che si era ufficialmente fidanzato con la ragazza alla quale aveva chiesto di ballare alla festa di Leopold, telefonò a Rosalie per invitarla al cinema. A vedere il film ci sarebbe stato lui, la sua fidanzata Susan, Carol (che era la migliore amica di quest’ultima), Leopold ed altri loro ex compagni di classe che lei non aveva più sentito né più aveva incontrato dalla spiacevole serata di due mesi prima. Rosalie non sapeva che decisione prendere. Avrebbe tanto voluto rivedere il complice di molte piccole imprese quotidiane, del quale le mancava anche soltanto respirarne la semplice presenza, ma al contempo temeva una nuova adiacenza. Vederlo avrebbe con ogni probabilità significato riportare più vivamente alla memoria l’immagine della stretta e del bacio che Carol gli aveva rubato, eppure a cui lui non si era sottratto.
Prima di dare una risposta a Robert, Rosalie gli chiese perché era scomparso proprio quando necessitava, come mai fino ad allora, di un conforto amico. Il giovane replicò che non ce l’aveva fatta a trovare parole appropriate per tentare di lenire il suo sconforto e che tante volte aveva però preso la cornetta in mano tuttavia, sentendo dall’altra parte la sua voce mogia, aveva sempre riattaccato subito per timore di far sanguinare una già profonda ferita… o forse solo per codardia, e se ne scusò. Rosalie ribatté domandando se nel suo distacco e prolungato oblio non c’entrasse Susan, se l’essere il ragazzo di una carissima amica di Carol non l’avesse portato a temere nel mostrarsi “schierato” al suo fianco, se ciò non l’avesse frenato magari inconsciamente. Robert assicurò che non era così anche perché quanto successo alla festa, per Leopold, non aveva significato nulla se non un’“avventura”, neppure cercata, che gli aveva fatto perdere l’unica fanciulla la cui compagnia davvero desiderava con tutto se stesso. Alla fine di questa breve chiacchierata, Rosalie decise di accettare l’invito, conscia che bisogna affrontare le sfide che si presentano sul proprio cammino se non si vuole rimanere intrappolati in una paralizzante informità. Quel stringente silenzio che l’aveva frastornata per settimane intere, quei punti interrogativi sui motivi per cui Leopold non l’aveva più cercata e ai quali lei non era riuscita a trovare una ragione, erano stordenti ma sperava che finalmente essi avrebbero trovato una spiegazione convincente e sarebbero dunque svaniti.
Fu nel suo prolungato periodo di solitudine che Rosalie si accorse di come non solo le parole dialogano con le persone e che le ombre talvolta sono ancora più vivide di una nitida immagine rimandata dallo specchio. Comprese che il silenzio è un aspetto fondamentale dell’esistenza che accompagna la realtà e che, in quanto tale, si può parlarne per non venirne pericolosamente risucchiati. Si rese poi conto che, seppure spesso non se ne riesce a discorrere e a discorrerci, è comunque possibile ascoltarlo. Soltanto su ciò a cui si presta orecchio si può riflettere ed unicamente quanto non si vuole scacciare si può elaborare.
Rosalie, nei primi giorni della sua incursione nelle proprie giornate, prese in antipatia il silenzio: non riuscendo a capirlo, la metteva a disagio e lo considerava un estraneo da cui difendersi ignara del fatto che era privo di ogni arma – la sua innocua visita la inquietava e si ritraeva da questa indifesa compagnia. Privata della famigliarità col silenzio, era incapace di ascoltarlo e lo reputava agghiacciante nell’apparente superficiale mancanza di vitalità e comprensibilità. Alla fine, dopo una settimana circa dall’incontro con il coinquilino di tante giornate future, Rosalie capì che non era suo nemico e che doveva soltanto abbattere un muro che lei stessa aveva tirato su. Le fu allora chiaro come non aveva mai ascoltato veramente i propri imi bisogni perché l’udito in mancanza del silenzio non è altro che percezione del rumore, quel rumore che tante volte l’aveva confusa ed aveva annebbiato il suo io costringendola ad abbandonarsi inerme al deforme. Rumore qual dittatore d’uno smarrente, superficiale, spadroneggiare sul sé. Rosalie, incapace di porsi in ascolto del silenzio, si era difatti fatta sopraffare da numerose insicurezze e non era più riuscita ad inseguire il suo sogno, Leopold, ma adesso si sentiva pronta a riprendere in mano le redini d’una sinora sol abbozzata vita.
Quella sera la ragazza dagli occhi che parevano gemme olivastre, indossò un vestitino corto di un tenue lilla, dall’ampia gonna in tulle, ed un paio di sandaletti dorati come la minuscola pochette che teneva delicatamente in mano (anche se l’istinto era di stringerla forte per scaricare, arroccandosi su di essa, la grande tensione che le percorreva il corpo). Ancora prima di arrivare davanti al cinema, Rosalie vide in lontananza che Leopold era l’unico che si trovava già là e sentì un groppo in gola, faceva fatica a deglutire e la saliva le ristagnava tra mille “Perché?!?” come colla appiccicosa. Sul cuore le vibrazioni d’un pesante masso, masso che le dava l’impressione d’ingrandirsi ad ogni istante, fino a schiacciarla, coperta dai detriti provenienti da una profonda fragilità. Il respiro era affaticato perché sfiancato da un tamburellare martellante e lei aveva gli occhi lucidi pur cercando di reprimere il pianto, di respingere indietro le lacrime. L’ansia la stava sovrastando, avrebbe voluto scappare e tornarsene a casa ma ormai quelle due pupille nerissime, color del carbone, l’avevano raggiunta ed era quindi troppo tardi per girarsi indietro.
Quando i due giovani furono di fronte si trovarono visibilmente impacciati, bloccati dal loro stesso irrefrenabile desiderio di abbracciarsi sebbene, però, rimasero immobili. Non sapevano come muoversi, cosa dirsi, non trovavano le parole per riprendere quella speciale amicizia da dove l’avevano interrotta perché ciò non corrispondeva al, reciproco, sentire e pur incapaci di afferrare una volta per tutte l’innaffiatoio che avrebbe fatto sbocciare la precedente frequentazione amicale in amore. La gioia nel vedersi era enorme ma trattenuta da una cortina nebbiosa di frasi mai dette, spezzate a metà e per questo fluttuanti in un limbo di rimorsi, dubbi, esitazioni. L’imbarazzo fu presto rotto dall’arrivo del resto del gruppo. I ragazzi entrarono al cinema e si sistemarono sulle poltrone. Carol, Susan, Robert, Rosalie, Leopold e poi quattro altri amici.
Durante la visione del film, inavvertitamente, le dita di quelli che erano stati fino a qualche mese prima compagni di banco si sfiorarono più volte. Dovevano condividere un medesimo bracciolo e capitò loro di appoggiarvi i gomiti sincronicamente ma, quando erano i loro palmi a toccarsi, subito si ritraevano come a scusarsi per quell’incontro fortuito… in verità, pervasi da un sottilissimo brivido di piacere e sorpresi da un calore che si espandeva fin dentro le ossa, avrebbero voluto intrecciare le loro mani assai a lungo. La volta successiva che Rosalie e Leopold si videro fu davanti ai rispettivi Licei. Lei si era iscritta al Classico, lui allo Scientifico ma i due istituti avevano un cortile in comune.
Seconda parte del racconto “Il sogno di Iris” di Roberta Pelizer.
La giovane coppia non era mai stata in Italia quindi tutto era nuovo, luoghi, persone, cibo e abitudini. Una volta arrivati a Sassuolo, in provincia di Modena, i due ragazzi iniziano subito a cercare il lavoro per poi in un secondo tempo prendere una casa in affitto e iniziare così un percorso completamente nuovo. Essendo molto motivati non hanno fatto fatica a trovare subito un impiego Ervis come autista in una ditta di trasporti ed Iris da una parrucchiera sua connazionale proprio in città. Ben presto iniziano anche a farsi i primi amici e così non si sentono più soli e la loro vita prende giorno dopo giorno risvolti sempre più belli, sono molto amati e stimati da tutti coloro che li circondano perché entrambi sono umili e sanno farsi volere bene.
Iris dopo alcuni mesi viene promossa all’interno del negozio nel quale lavora come responsabile perché grazie alla sua professionalità la titolare si “innamora” del suo splendido modo di fare. A Iris tutto questo sembra un sogno, aveva tutto ciò che sognava da sempre: un marito amorevole, una casa propria e anche se era in affitto lei la curava nei minimi particolari, con amore e devozione, per questo, era molto accogliente e rispecchiava il carattere solare della ragazza. Lei era così in tutto quello che faceva: ci metteva sempre il cuore. Il tempo passa in fretta e tutto va a gonfie vele all’interno del piccolo nucleo famigliare della coppia e ben presto arriva anche una notizia inaspettata: Iris aspetta un bambino…
Oggi per la rubrica “Racconti e Poesie” ospitiamo la sesta parte del racconto di Faber 1961: “Il mistero del libro senza titolo”
Il mistero del libro senza titolo di Faber 1961
Il tempo era passato velocemente: erano già le 19 e me ne accorsi guardando l’orologio. Si avvicinava l’ora di cena. Decisi di sospendere l’osservazione del libro e lo riposi nella libreria; esco dalla biblioteca e mi avvio lungo il corridoio per recarmi nella mia stanza, giusto il tempo per una doccia per presentarmi presentabile alla cena con il conte. Nel corridoio incrocio Luisa che mi saluta inclinando la testa, le ricordo dell’appuntamento dopo cena e lei annuisce con un movimento del capo. Mi riavvio nel corridoio, raggiungo la mia camera. Finita la doccia mi rivesto giusto in tempo per scendere a cena. Quando apro la porta della sala da pranzo la pendola della stanza a fianco batteva le 20 e il conte era in piedi vicino al tavolo. «Vittorio! Complimenti per la puntualità. Accomodati, tra poco Luisa ci servirà la cena». Durante la cena, decisamente di alta qualità e innaffiata da ottimo vino, si parlò di tanti argomenti ma non fu toccato il tema ‘libro misterioso’. Sto introducendo in bocca l’ultimo cucchiaio di una fantasmagorica crema catalana quando il conte, posando il suo di cucchiaio, mi chiese: «Come sta procedendo l’analisi del libro?». «Penso di essere quasi arrivato a una conclusione, spero domani di poter svelare qualcosa». La cena si chiuse con un ottimo amaro artigianale che il conte riceveva costantemente da un luogo segreto che, naturalmente, non mi svelò. Un altro segreto dopo il libro senza titolo. «Ora mi ritiro nella mia camera: dopo cena una buona lettura e poi il sonno ristoratore per essere pronto per il giorno dopo. L’unico momento della giornata in cui non mi va di essere disturbato. Ci vediamo domani mattina. Spero che tu possa trascorrere una buona notte». Risposi: «Grazie, domani in tarda mattinata spero di aggiornarti sulla vicenda». Lasciai appositamente sul tavolo il cellulare: una scusa per tornare indietro e incrociare Luisa per accordarmi. Usciamo in corridoio e dissi: «Scusami Massimiliano, ho dimenticato il cellulare sul tavolo». «Vai pure, ci vediamo domani mattina». Rientro nella sala da pranzo e incrocio Luisa impegnata a sparecchiare. «Luisa, ci vediamo dopo in camera in tua?» «Va bene signor Vittorio, facciamo per le 22: penso di aver finito per quell’ora». «A dopo», esco dalla sala da pranzo e mi avvio in camera. Entro, chiudo la porta, guardo l’ora: sono le 21,35. Giusto il tempo per riordinarmi le idee. Non voglio sembrare precipitoso pertanto aspetto che le 22 siano passate da una decina di minuti per avviarmi verso la stanza di Luisa. Quando esco dalla mia camera mi appare un corridoio buio, ma è proprio al buio che mi oriento meglio. Mi avvio, incrocio il corridoio che conduce all’ala del palazzo dove si trovano le stanze private del conte. Proseguo e trovo le scale che mi ha indicato Luisa.
Sfrutto alcune piccole luci di cortesia che mi consentono di non accendere le lampade delle scale. Arrivato in cima individuo immediatamente la stanza della cameriera: guardo l’ora sono le 22,20. Busso alla porta e una voce mi dice: «Entri signor Vittorio, la porta è aperta». Giro la maniglia, apro la porta e mi ritrovo Luisa in accappatoio con in testa un asciugamano a mo’ di turbante. «Scusa Luisa, sono troppo in anticipo? Torno dopo se vuoi». «Sono io che sono in ritardo signor Vittorio. Mi sono attardata a rassettare la cucina: il signor conte ama fin troppo la precisione. Ora solo un attimo che mi rivesto». Istintivamente mi sedetti sul bordo del letto e mi girai dalla parte opposta per non mettere in imbarazzo la ragazza ma uno specchio assai malandrino mi rifletteva l’immagina di lei completamente nuda». Cercavo di guardare da altre parti ma l’occhio cadeva sullo specchio mentre Luisa si attardava a vestirsi allungando i tempi per asciugarsi fino a quando mi disse: «Signor Vittorio si può anche girare, intanto guardami nello specchio o direttamente cambia poco. Solo quando sono in servizio faccio la timida e l’ossequiosa». Cerco di guardarla negli occhi ma quel corpo ha un qualcosa di magnetico. Lei se ne accorge e non faceva nulla per nasconderlo alla mia vista. «Luisa, volevo chiederti se negli ultimi tempi è successo qualcosa di strano o di anomalo in questo palazzo». Senza rivestirsi si avvicina e si siede vicino a me. «A pensarci bene si: una sera di qualche settimana fa il conte mi disse che non sarebbe andato immediatamente a letto, che aspettava persone. La cosa mi sembrò strana ma non posso dire altro: Antonio era già tornato a casa, lui non abita qui, e io sono stata accomiatata in fretta e furia e fui costretta a finire di resettare la cucina la mattina seguente». Luisa prese una pausa, io appoggiai la mia mano sulla sua gamba e lei non fece nulla per allontanarla. Riprese «Scusami ma non so dire altro, come vedi la mia camera è distante e non ho visto e sentito nulla». «Grazie lo stesso – risposi – grazie a quello che mi hai detto penso di capire cosa possa essere successo. Affronterò l’argomento con il conte ma senza tirarti in mezzo, so come fargli credere che ho scoperto tutto da solo». Il tempo di terminare di parlare e dopo avermi detto «Grazie» mi ritrovo le labbra di Luisa appiccicate alle mie e nel volgere di pochi secondi il bacio si fece più intenso e profondo. Quella notte facemmo l’amore come non l’avevo mai provato prima. Dormimmo poi insieme, nudi e abbracciati.
Mi svegliai che il sole non era ancora sorto e la sveglia di Luisa non aveva ancora dato segni di vita. Alzandomi dal letto diedi un tenero bacio a Luisa e le sussurrai: «Meglio che faccia ritorno in camera mia prima che il conte se ne accorga». Luisa mi sorrise, annuì con la testa e stringendolo come uno scettro mi tirò verso si lei per un ultimo bacio appassionato. Mi rivestii e tornai, senza fare spiacevoli incontri, nella mia stanza. Una buona doccia ed eccomi pronto per scendere in biblioteca. Apro la porta e nel corridoio incrocio Luisa che sorridendo mi chiede cosa desidero per colazione. «Vado direttamente in biblioteca, mi puoi portare un caffè?» «Va bene, ti busso perché sai che li dentro non posso entrare». Mi saluta ed entra in cucina, proseguo fino alla porta, infilo la chiave nella toppa, la apro e rimango di sasso. Il libro si trovava nuovamente aperto sul tavolo. Mi avvicino al tavolo dimenticando di chiudere la porta: il libro è aperto su una pagina che mi lascia sgomento. L’immagine che vedo è spaventosa: in quel mentre sento bussare alla porta. Mi volto: sulla porta c’è Luisa con il caffè. Prendo la tazzina e velocemente stampo un bacio sulle labbra a Luisa che sembra apprezzare. La ringrazio, lei si allontana: chiudo la porta, sorseggio il caffè e fisso il libro. Non avevo più dubbi: mi trovavo di fronte a un Necronimicon. Ora devo capire come ha fatto ad arrivare nella biblioteca del conte e, soprattutto, per quale motivo. Un mistero che mi arrovella il cervello: sicuramente mi manca qualche tassello per comprendere e risolvere il mistero del libro senza titolo, sicuramente il conte potrà essermi utile. Senza pensarci su esco dalla biblioteca chiudendo la porta a chiave e mi avvio verso l’ufficio del conte.
Sono certo che lo troverò seduto alla sua scrivania. Busso alla porta. Pochi secondi e sento dall’altra parte: «Avanti». Entro, chiudo la porta: il conte Massimiliano Della Spada è seduto alla scrivania con dei carteggi in mano. Mi fissa attendendo che mi pronunci. «Massimiliano, credo di essere arrivato a una conclusione ma ho bisogno di porti alcune domande». «Sono a disposizione». «Massimiliano percepisco che qualcosa è successo prima che il libro si materializzasse nella tua biblioteca, qualcosa di molto particolare, un qualcosa su cui forse vi siete spinti oltre e se dico vi è perché non eri solo». «Mi hanno detto che sei un uomo in gamba, Vittorio, ma non credevo così tanto. Hai ragione». Il conte rimane in silenzio qualche minuto e poi… «Ti racconto tutto, Vittorio accomodiamoci nella sala qui di fianco, saremo più comodi».
Proseguiamo oggi con il sesto capitolo di “Amore oltre ogni confine”, il primo romanzo breve di Giulia Quaranta Provenzano, scritto ed edito nel 2013 con il Centro Editoriale Imperiese. Da allora la trentunenne nostra collaboratrice non ha mai smesso di regalare emozioni.
“Amore oltre ogni confine” di Giulia Quaranta Provenzano
6. IL PUDORE RENDE SCHIAVI? – Tornata distrutta dalla festa tenutasi nell’albergo di Leopold, Rosalie si buttò sopra il letto, nascose tra il cuscino l’esile viso rigato da copiose stille di pianto, singhiozzò per tutta la notte e non riuscì a prendere sonno. Rosa da un’acre e crudele impotenza, avendo il cuore trapanato da un’acuta afflizione, amarezza e disperazione, Rosalie provò ad attutire il squassante struggimento rifugiandosi nelle pagine d’un sottile diario su cui era solita annotare pensieri e stati d’animo. Scrisse: «Oggi sono andata alla festa di Leopold carica di speranze e di pur/troppo sol rosee illusioni. Ho creduto di poter iniziare una favola con lui pensando che talvolta c’è un lieto fine, più che altro un tanto agognato ma non meno bramato inizio, per chi lo ha molto sinceramente desiderato. Io ho a lungo sognato di costruire qualcosa con Leopold, ma essere pieni di speme non basta. Per volare sono necessarie le ali e, dato che gli esseri umani non ne sono naturalmente forniti, ognuno se le deve creare, se non si vuole finire per trovarsi ad abbandonare l’impresa di librarsi in alto. Io queste ali non sono stata in grado di fabbricarle, forse mi sembrava di non avere gli strumenti adatti però qualcun’altra è riuscita a compiere l’opera in cui io ho fallito. Ma perché mi sono arenata, perché sono rimasta impantanata in un’ostile viltà e sono venuta meno al mio proponimento? È colpa dell’eccessivo pudore? Pudore, pudore, pudore che parola ora dura e sgradevole al mio orecchio eppure tanto radicato nella mia anima _ esso mi fa versare amare lacrime».
Rosalie, dopo aver appuntato questo suo sfogo, provò a distendersi sotto il leggero lenzuolo di cotone trasparente ma non si addormentò. Neppure il sonno quella notte era suo alleato. Ecco allora che decise di impugnare ancora la penna in modo da tentare di riversare tutto il tormento sulla carta e, in codesta maniera, liberarsene. Se qualcuno mai avesse aperto il diario di Rosalie alla data 28 giugno avrebbe poi letto: «Stupida che sono, troppo pudica per rivelarmi vincente, troppo orgogliosa, ostinata ed innamorata di ciò in cui credo per rassegnarmi ad essere una perdente… Questa notte il pudore mi sembra il più inattuale dei sentimenti, talmente raro da trovare nei giovani che pare si sia estinto ma non in me. Ci sono vocaboli che i dizionari custodiscono eppure la gente dimentica, come se il tempo attuale li avesse accantonati in fretta. Una di queste antiquate ed ormai sorpassate parole è “pudore” – termine perfetto per connotarmi sotto la luce tenue degli inetti, ma tanto violenta nel suo pallore se accostata all’immagine di Carola. Carola è tutto ciò che io non sono e, alla guida di una vita più esibita che vissuta realmente, lei ha assaporato tuttavia quella gioia che io ho solo sognato di provare. Le sue conquiste sono possessi soggetti alla dittatura di un’eccessiva impudenza ma, anche se tutte le volte che vedo Carola agire mi chiedo infastidita che fine abbia fatto il pudore, un po’ la invidio perché raramente non ottiene ciò che desidera. Forse la spregiudicatezza è un luogo di libertà mentre il pudore rende schiavi?»
Certo Rosalie era consapevole che la pudicizia può rallentare e frenare molte corse alla meta, che è un sentimento rischioso in quanto impone dei limiti nel mostrarsi per quello che realmente si è dinanzi agli altri, ma di sicuro non aveva mai pronosticato neanche lontanamente che sarebbe stata proprio questa la causa della più spasmodica pena che si possa provare a quella, alla sua, età. Ella sino ad allora non aveva mai odiato così tanto il suo carattere riservato e, lo struggente livore che provò verso di sé, la portò a domandarsi come poteva ciò un sentimento che aveva sempre creduto stabilisse dei paletti solo in rapporto alla sana necessità di rispettare se stessi e gli altri. A Rosalie era sta detto fin da bambina che il pudore è un moto dell’animo specificatamente umano, soprattutto femminile, e che possiede un ruolo essenziale nella formazione della soggettività in quanto permette la costruzione dello spazio dell’intimità, ma adesso mendicava una ragione per cui continuare a credere che tutto ciò fosse più importante della felicità distrutta con le proprie mani a causa di questo indottrinamento da parte dei genitori.
La mattina seguente Rosalie andò svogliatamente a fare colazione con gli occhi rossi ed ancora umidi, dunque, la madre la incalzò con mille domande sul motivo di questa sua condizione. La ragazza stanca per non aver chiuso occhio da ventiquattro ore, irata con la famiglia per come era stata educata perché le sembrava di avere la testa piena di tanti begli insegnamenti però le mani vuote di soddisfazioni, sbottò in un brusco: “Basta col soffocarmi di quesiti, mi hai stancato! La ragione del mio umore nero e della mia infelicità sei solo tu!”. Rosalie sapeva di aver mentito spudoratamente ed in modo infantile e non di meno quelle erano le prime parole che si era trovata sulla lingua e, come rasoi taglienti, le aveva sputate contro l’unica persona che avrebbe sempre voluto il meglio per lei e una raggiante felicità. Tuttavia la mamma di Rosalie era una donna molto comprensiva e paziente, capì subito che il malumore della figlia era dovuto ad una cocente delusione d’amore e se ne stette zitta. Nel pomeriggio lasciò sul comodino di Rosalie un articolo di giornale accompagnato da un bigliettino.
Le parole della lettera, a dispetto della sua brevità, erano molto intense: «Sarà banale ma sappi che dopo la tempesta prima o poi arriva sempre il sereno, bisogna soltanto saper aspettare. Sei una creatura meravigliosa sotto tutti i punti di vista anche se con me sei spesso nervosa e ciò è pure abbastanza naturale e scusabile perché con qualcuno ti devi sfogare …a tredici anni, per non ferire nessuno, tu mandi giù bocconi amari più di quanti e quanto farebbe qualsiasi altra tua coetanea. Ti scrivo ciò non perché sei mia figlia, ma perché lo penso davvero e spero che la vita non ti faccia mai cambiare. Non barattare la tua bontà inseguendo il successo ad ogni costo e a qualsiasi prezzo, non divenire scontrosa perché insoddisfatta, non trasformarti in una persona non timorata di alcunché per apparire infallibile. Siamo creature mortali che godono di alcune gioie e si struggono per altrettanti dolori però non dobbiamo dimenticare che ogni piccola debolezza è una ricchezza. Sovente quando e quanto più si è fragili è perché si vuole proteggere qualcosa di prezioso, caro al proprio cuore, d‘inestimabile valore e si teme di perderlo o non raggiungerlo. Affronta sempre l’esistenza con lealtà, sii sincera con te stessa e con il prossimo e se il pudore talvolta ti frena non scagliarti contro di esso, non rinnegarlo e non maledirlo, bensì rammenta cosa leggerai nell’articolo che ti allego. Con immenso amore, la tua mamma». Lo scritto di cui la madre di Rosalie le aveva fatto dono sosteneva che la libertà dipende innanzitutto dall’opportunità di scegliere e che il pudore favorisce proprio il costruirsi dell’autonomia individuale. Questa tesi era sostenuta affermando che se si possiede autogoverno, che permette di compiere scelte in modo indipendente, allora si è realmente liberi ed è il pudore a permettere ciò, poiché protegge dallo sguardo che si sente invadente, fastidiosamente estraneo ed inopportuno e determina il locus all’interno del quale ci si potrà sempre muovere agilmente senza intromissioni indesiderate.
Nei giorni seguenti non ci fu momento in cui Rosalie non ripensò a quello che era accaduto la sera del 28 giugno, ai pensieri che ne seguirono e ai consigli che le erano stati dati arrivando a condividere, oltre il contenuto dell’articolo fornitole, l’augurio materno. Aveva alla fine ricompreso ed assimilato coscientemente come gli individui non riescano a forgiarsi una personalità in maniera autonoma e serena senza pudore, come la sfrontataggine determini massificazione producendo una serie di automi col solo scopo della conquista e allora più che mai desiderò rimanere una persona spontanea, non violata perché imponente il rispetto del proprio spazio interiore e apprezzata o meno ma per quello che in fondo si – lei, come ciascun altro – è e non per alcun simulato oppure mettendosi in mostra in una volgare esibizione.
Prosegue il racconto di Roberta Pelizer, una vicenda intricata e avvincente.
Denaro, segreti e bugie… di Roberta Pelizer
«… sì ma la ragazza esattamente che cosa aveva? Soprattutto voi che eravate lì presenti che cosa avete fatto? Non mi dire che siete scappati e l’avete lasciata da sola in quelle condizioni vero? Dimmi che non hai fatto una cosa di questo genere, dimmi che non ti sei cacciato in un guaio più grande di te!»
«No Miriam siamo rimasti tutti lì anche perché a pochi metri di distanza c’erano le sue due guardie del corpo che chissà come mai dopo pochi minuti hanno sfondato la porta della camera d’albergo e se la sono portati via blaterando qualcosa in russo». «Va bene Matteo ho capito eravate tutti insieme, avete esagerato con alcol e chissà quale altra sostanza ma tutto questo che cosa c’entra con quello che è successo alla nostra famiglia e con la morte di tuo padre?» «Due giorni dopo, se ti ricordi, sono rientrato a casa mi sono spaventato ed ho capito che forse era successo qualcosa di più grave di quanto mi aspettassi perché stranamente assieme ad Olga sono scomparse anche le sue amiche e tutti i loro cellulari risultavano inesistenti, sembrava come se non fossero mai esistite e non fossero mai venute lì in vacanza, pensa che persino in albergo non ci dicevano niente e alla reception continuavano a risponderci che non risultavano assolutamente ospiti con i nomi delle ragazze e proprio per questo motivo mi sono spaventato e non ho capito più niente e soprattutto non ci volevo più stare in quel posto maledetto».
«Io continuo a non capire che cosa c’entra la tua stupida vacanza da ragazzino viziato e sballone con l’incidente che è accaduto a tuo padre, intendi dirmelo oppure continui a mantenere questo alone di mistero che mi sta facendo solo innervosire?» «Per qualche giorno ho pensato e ripensato ad ogni minuto di quella maledetta vacanza e non mi veniva in mente nessun particolare strano, eravamo semplicemente un gruppo di ragazzi che si erano trovati in spiaggia e si stavano divertendo tra cene, discoteche e fiumi di alcol. Il fascino russo che emanava Olga ci aveva stregato un po’ tutti ma nessuno di noi avrebbe mai immaginato come sarebbe andata a finire». «A finire cosa? Ma cosa stai dicendo? Dove vuoi arrivare Matteo?» «Sto cercando di dirti che la morte di papà non è stato un incidente perché dovevo esserci io al suo posto…» (continua)
Oggi per la rubrica “Racconti e Poesie” ospitiamo la prima parte del racconto di Roberta Pelizer “Il sogno di Iris”.
Il sogno di Iris di Roberta Pelizer
Questa è la storia di Iris, una giovane ragazza di origini Albanesi originaria di un piccolo paese vicino a Tirana, il padre muratore e la mamma donna delle pulizie sono due persone umili ma con un cuore grande ed hanno insegnato a lei e ai suoi tre fratelli l’amore per la famiglia, l’onestà e la correttezza . Sin da piccola Iris sogna di avere la sua indipendenza economica per poter regalare una grande casa ai suoi genitori ed avere una famiglia tutta sua. All’età di sedici anni inizia a lavorare come apprendista da una parrucchiera vicina di casa e li capisce quello che vuole fare da grande, aprirsi un negozio tutto suo e diventare, quindi, un’imprenditrice, creare un salone di bellezza unico nel suo genere. Per questo motivo inizia a frequentare un’accademia per hair stylist a Tirana, la passione per il suo lavoro non le faceva sentire la stanchezza che tutti i suoi impegni le portavano.
Tutti i giorni prendeva il pullman delle sei del mattino per arrivare puntuale a lezione e proprio durante uno di questi viaggi Iris conobbe quello che sarebbe diventato il suo futuro marito. Ervis era un ragazzo biondo con gli occhi verdi e la battuta sempre pronta, il loro fu amore a prima vista. Una volta terminata l’accademia i due ragazzi si sposarono, rimasero un paio di anni in Albania sino a quando non decisero di partire per l’Italia in visita a una parente della ragazza, fu così che una volta arrivati all’aeroporto di Bologna si trovarono catapultati in un mondo completamente nuovo . Fine prima parte
Oggi per la rubrica “Racconti e Poesie” ospitiamo la quinta parte del racconto di Faber 61: “Il mistero del libro senza titolo”
Il mistero del libro senza titolo di Faber 1961
Riassunto: Vittorio Piana si trova nella biblioteca della dimora del conte Massimiliano Della Spada in attesa di essere ricevuto dal padrone di casa che lo aveva invitato. Vittorio si trova circondato da moltissimi libri alcuni dei quali antichi e che trattano argomenti particolari. L’arrivo del conte lo distoglie dall’osservare quel patrimonio cartaceo. Il padrone di casa preleva un libro dallo scaffale e invita Vittorio a seguirlo. (prima parte). Nel salotto dove si trovavano il conte invita Vittorio a prendere visione del misterioso libro. Vittorio lo osserva con lo stupore di non trovare alcun segno sulle quattro facciate della copertina e nemmeno nella prima e ultima pagina. Ma non l’ha ancora aperto del tutto (seconda parte). Il conte e Vittorio tengono una lunga conversazione e decidono che Vittorio si trasferirà a Palazzo per avere tutto il tempo per analizzare il libro. La notte passata a casa porta Vittorio a pensare al mistero di questo libro e il ritorno a Palazzo riserverà ancora sorprese (terza parte).Vittorio torna nel palazzo del conte dove, dopo aver sistemano le sue cose nella stanza e fatto conoscenza con la cameriera del conte, Luisa. E finalmente si ritrova davanti alla porta della biblioteca (quarta parte).
Rimasi sulla porta stupito. La luce che entrava attraverso la finestra illuminava in mezzo alla stanza una piccola scrivania e una poltroncina che il giorno prima non c’era, probabilmente messa dal conte per permettermi di lavorare. La sorpresa, però, è il vedere il misterioso libro al centro del tavolo, aperto. Poteva essere che Massimiliano l’avesse messo così in bella vista per agevolarmi? Non credo: anche se la stanza era off limits per tutti, non lo avrebbe sicuramente lasciato così in vista. Ero ancora sulla porta con la chiave in mano: faccio un passo avanti e mi chiudo la porta alle spalle, mi avvicino alla scrivania. Chiudo un attimo gli occhi prima di gettare il mio sguardo sul libro. Il bussare alla porta mi coglie di sorpresa prima che potessi riaprirli, vado ad aprire: è Luisa che mi portava lo zaino. «Grazie Luisa sei stata gentilissima» riesco a dire fissando i suoi occhi magnetici, indugiando nel prendere lo zaino che mi stava porgendo. «Prego Vittorio… ehm… signor Vittorio, dovere» rispose con un velo di imbarazzo la ragazza, “dovere e piacere” pensai. Presi lo zaino, la mia bocca esplose in un sorriso contraccambiato da lei. «Luisa, vorrei parlarti in privato: quando posso?» «Quando il signor conte si ritira in camera sua alla sera, la sua stanza è dalla parte opposta di dove dorme lei. Al signor conte non piace stare vicino agli ospiti, ama troppo la sua privacy. Allora mi può raggiungere in camera mia che è al piano di sopra» rispose un po’ imbarazzata, detto questo si allontanò senza aggiungere altro.
La seguii mentre si incamminava lungo il corridoio: la sua andatura mi affascinava. Ma c’era anche altro che mi affascinava: il libro senza titolo. La mattinata stava terminando e non avevo ancora concluso nulla: rientro in biblioteca chiudendomi la porta dietro, mi avvicino alla scrivania, mi siedo e fisso il libro sulla scrivania. Perché posizionato sul tavolo? E perché aperta proprio su quella pagina? Lo studio un attimo da seduto: mi angoscia, mi provoca vibrazioni strane. Mi alzo, giro intorno al tavolo guardando quel libro: cosa mi sfugge. Sto pensando quando sento bussare alla porta. Mi avvicino alla porta, la apro e mi trovo di fronte Luisa. «Signor Vittorio, tra mezzora è pronto il pranzo, il Conte l’attende nella sala da pranzo che è la seconda porta sulla destra nel corridoio in direzione giardino». «Luisa sarò puntualissimo». Luisa sorride, si inchina e si avvia nel corridoio. Richiudo la porta e guardo l’ora sul cellulare: sono le 12,10. Ho poco tempo che utilizzo per scrutare il libro senza toccarlo. Lo lascio aperto sul tavolo, lo osservo e poi mi decido di lasciare la biblioteca: non mi piace tardare. Esco dalla stanza, chiudo la porta a chiave e me la infilo in tasca avviandomi lungo il corridoio. Quando arrivo davanti alla porta della sala da pranzo la trovo aperta ma nella stanza non c’è nessuno. Decido di entrare. Non faccio tempo a muovere un paio di passi all’interno di quell’ambiente nuovo di me che una voce alle mie spalle mi distoglie dalla mia curiosità di analizzare dove mi trovavo. «Mi compiaccio per la tua puntualità Vittorio» e mi precede all’interno della sala da pranzo. Riesco a buttare velocemente un’occhiata: una stanza non grandissima ma sicuramente di metratura superiore a quella di una normale sala da pranzo di un palazzo signorile cittadino, pochi mobili bassi e una credenza con un piano e due ante, al centro un tavolo per una decina di persone apparecchiato per due. Il Conte si posizione a capotavola voltando le spalle a una porta che sicuramente comunica con la cucina e mi invita a sedermi alla sua sinistra.
Mi siedo quasi in contemporanea. «Ho dato disposizione di preparare un pranzo leggero affinché tu possa mantenere la concentrazione quando sarai in biblioteca. Avremo modo stasera di celebrare questa tua presenza nella mia casa» affermò Massimiliano. In quell’istanze fece la sua apparizione Luisa vestita di tutto punto da cameriera recando con se un vassoio con un’appetitosa carne cruda battuta a coltello e mentre si avvicina al tavolo il conte esclama «Prima gli ospiti, Luisa». Si avvicinò sulla mia destra e nello sporgersi per mettere nel piatto quella deliziosa portata mi donò un’altrettanto visione dei suoi seni che si intravedevano grazie a un bottone maliziosamente fuoriuscito dall’asola. «Va bene così Luisa» dissi dopo che la ragazza riempì il mio piatto con due abbondanti cucchiaiate. Mentre serviva il conte, Massimiliano mi chiese se gradivo questo piatto a cui risposi che era uno dei miei preferiti. Luisa tornò nelle cucine. «Buon appetito Vittorio». «Altrettanto Massimiliano». «e dimmi novità?» Terminai di assaporare una forchettata di quella splendida carne e dissi: «Volevo ringraziarti per aver posizionato un tavolo nella biblioteca, però volevo sapere se sei stato tu a posizionare il libro aperto sul tavolo».
Massimiliano Della Spada mi guardò stupito e posando la forchetta nel piatto scrollando la testa esclamò: «No, assolutamente no. L’avevo lasciato nella libreria nell’esatto posto dove l’ho trovato e dove ieri l’ho preso per mostrartelo». «Magari l’ha fatto chi ti ha aiutato a posizionare il tavolo nella biblioteca». «Impossibile, Antonio mi ha aiutato nel portare il tavolo fino alla porta d’ingresso, poi si è allontanato. Solo in quel momento ho aperto entrambe le porte e ho spostato da solo il tavolo. Ripeto tu sei l’unico che ha il permesso di entrare in quella stanza». «Allora – constatai ad alta voce – c’è un problema». «Quale?» «C’è qualcuno, o meglio qualcosa, che ha accesso alla biblioteca senza aver bisogno della chiave e del tuo permesso. Però ora pranziamo così mi rimetterò presto al lavoro. Il mistero si sta rivelando molto avvincente». Il conte, sicuramente voglioso di saperne di più, concordò nel portare a termine il pranzo che proseguì nel più assoluto silenzio poiché entrambi, nella nostra mente, rimuginavamo sull’accaduto, distratti solo da Luisa che ci servì altre due portate, distraendomi solo per un istante con la sua scollatura. Terminato il pranzo ringraziai il conte aggiungendo: «Ora è meglio che mi metta al lavoro, si tratta sicuramente di un mistero che richiederà molta concentrazione. Con il tuo permesso vado in biblioteca». Il conte con un movimento del capo acconsentì e aggiunse: «La cena viene servita alle 20». «Sarò puntualissimo», quindi lasciai la sala da pranzo e ritornai nella biblioteca. Entrato, chiusi la porta a chiave e mi avvicinai al tavolo.
Proseguiamo oggi con il quinto capitolo di “Amore oltre ogni confine”, il primo romanzo breve di Giulia Quaranta Provenzano, scritto ed edito nel 2013 con il Centro Editoriale Imperiese. Da allora la trentunenne nostra collaboratrice non ha mai smesso di regalare emozioni.
“Amore oltre ogni confine” di Giulia Quaranta Provenzano
5. LA FESTA – Era il 28 giugno, gli esami di licenza media conclusi e Leopold organizzò nell’albergo dei suoi genitori una serata tra ex compagni di classe. A questa festa avrebbe partecipato pure Rosalie. L’hotel della famiglia dell’ormai sbocciato, in tutto il suo regale splendore, Leopold si trovava quasi sulla sommità di un monte. Nonostante la difficoltà di far crescere fiori quali le rose a così elevata altitudine, Margaret aveva ordinato ai giardinieri di trovare le più belle esistenti ed adornarne il lungo viale d’ingresso con siepi profumate. Venne accontentata. Oltre che dai cespugli di rose rosso porpora mischiate ad altre bianche come la neve, il vialetto era costeggiato da alti lampioni alla cui estremità superiore erano attaccati dei festoni di leggere lanternine in cartapesta dentro le quali erano poste, sotto conchine d’alluminio con dentro un po’ d’acqua, delle candele agli agrumi. Alla fine della passeggiata fiorita si ergeva maestosa, al centro di un ampio spiazzo rotondo, una fontana a candelabro dalle luci cangianti di uno sfavillante fucsia, verde, azzurro atte a squarciare l’intenso cielo vellutato di blu puntinato di piccole stelle lucenti. Gli imponenti muri dell’elitaria residenza per vacanze erano poi contornati da mille minuscoli fari bianchi a disegnarne il ricco decoro degli stucchi dorati.
Arrivata davanti all’enorme cancello dai molti riccioli in ferro battuto, Rosalie sentì il cuore schizzarle fuori dal petto e poté udirne i prepotenti battiti talmente accelerati da rincorrersi, folli, l’uno con l’altro come in una forsennata cavalcata. Mentre le celeri pulsazioni bussavano e rimbombavano insistentemente nel suo constato e non accennavano a terminare la loro irruente corsa, ella si fermò un momento e deglutì. Questa minuta ragazza fornita di un’avvenenza inconsapevole del suo grande potere d’incanto sugli animi più fini e con così puri, tuttavia disillusi, occhi color della speranza fu colta da un funesto presagio. Immobile davanti all’ingresso di quello che aveva sempre sognato quale sfondo da favola e culla dell’inizio della sua storia con Leopold, Rosalie non riusciva a trovare la forza di reprimere quella strana timidezza che le sussurrava all’orecchio, piano ma insistentemente, di tornarsene a casa perché non era posto per lei e che lì non vi avrebbe trovato altro che delusione. Poiché però era dotata di una sotterranea testardaggine, alla fine si risolse ad andare incontro a ciò che sarebbe stato.
Proprio mentre Rosalie giunse dinanzi alla fontana dai zampillanti e splendenti bagliori colorati, Leopold scese l’ultimo gradino di una suntuosa scalinata marmorea e se la trovò di fronte. Enorme ed irrefrenabile fu lo stupore del giovane nel vedere davanti a sé una Rosalie più bella che mai tanto che non riuscì a dirle altro che un balbettante «Ciao, complimenti: sei molto elegante». Indossava con leggiadria un lungo e fluttuante abito color avorio che sembrava appena dipinto sul tenero corpo; i capelli erano morbidamente raccolti con delle forcine impercettibili a scorgersi, che lasciavano intravedere solo tante minuscole perline madreperlate. Il trucco sul suo ovale era delicato come lei. Un sottile filo di leggero lucidalabbra trasparente, le guance appena più rosate del solito e un po’ d’ombretto champagne sulle palpebre sovrastanti le folte ciglia di un nero intenso. Rosalie sembrava una statua greca, dalla raffinatezza eterea, di una beltà mai ostentata bensì garbata come il suo animo. Appena ripresosi dall’incredulità per non aver capito fino ad allora quanto veramente la compagna di banco fosse sensuale oltre che intelligente e gentile, Leopold aggiunse «Ma prego, mettiti pure a tuo agio, io vado a salutare gli altri, scusami…». E con una gran falcate si diresse velocemente verso un gruppetto di ragazzi tra cui anche Robert che era là già dal pomeriggio. Rosalie si sentiva a disagio, non sapeva che fare, con chi parlare e quindi si sedette tutta sola, isolata, nel suo scoramento su una panchina sotto un millenario abete le cui fronde, mosse da un vento lieve, emanavano un tenue fruscio a farle da sibillino cavaliere.
Tutti i suoi vecchi compagni di classe stavano ridendo (sebbene un poco tesi), scherzando e facendo baldoria preparandosi per la conquista delle “prede”; le ragazze giulive fingevano di discorrere intensamente dei progetti scolastici futuri, ma stavano soltanto aspettando con trepidazione che la serata danzante giungesse alla sua metà perché allora ci sarebbe stato un lento durante il quale, presumibilmente, i maschi avrebbero invitato a ballare al centro dello spiazzo rotondo la loro favorita. Rosalie non poteva contare neanche sull’appoggio di Maggie che, probabilmente, mai più avrebbe rivisto perché era partita con la madre per una popolosa città di mare alla ricerca di maggior fortuna e di quella serenità che era sempre mancata ad entrambe nel paesino.
Passarono alcune ore e finalmente giunse il momento per ognuno di scoprire le proprie carte. I ragazzi dovevano invitare la ragazza di cui erano innamorati o per cui provavano qualcosa in più che l’affetto per un’amica ad unirsi a loro per un valzer lento. Questa idea del ballo era stata partorita da Margaret, certa che Leopold non avrebbe trovato il coraggio di danzare davanti a lei con Rosalie. In effetti il figlio, che era un ragazzo ironico, consapevole del proprio carisma e per questo molto sicuro di sé, quando si trattava di Rosalie diveniva ritroso anche solo a parlarne ed altresì privo di qualsiasi minima sfrontatezza e capacità d’iniziativa. Robert che conosceva bene Leopold immaginava ed anzi era sicuro di sapere che, non diversamente dal solito, non sarebbe riuscito a dichiararsi a Rosalie ma voleva aiutarli ad essere felici insieme pertanto, prima di dirigersi verso la ragazza alla quale avrebbe chiesto di ballare, andò dall’amica e le disse piano «Credimi, questo è il momento giusto in cui ti devi fare avanti, fallo questa sera o forse lo perderai. Se vuoi metterti insieme a lui devi invitarlo a ballare ora. Cerca di raccogliere tutta l’audacia che possiedi ed affrontalo a viso aperto perché altrimenti temo te ne potresti pentire amaramente». La giovane gli sorrise dolcemente e gli rispose solo «Grazie, sei sempre stato un ragazzo sensibile e premuroso con me, di poche parole ma che sanno toccarti dentro. Mi sento fortunata ad aver avuto dalla mia parte una persona come te». Rosalie non aveva infatti mai parlato con Robert del suo amore per Leopold, non di meno quelle parole le fecero comprendere che questo attento osservatore davvero le voleva bene e che, in tutti quegli anni, silenziosamente aveva parteggiato per lei tant’è che adesso avrebbe voluto vederla uscire dal suo guscio di pudore prima che fosse troppo tardi. Del rischio lei era consapevole però non se la sentì proprio di seguire il consiglio del compagno d’infanzia perché, anche se non esplicitamente, non poche volte aveva dato a Leopold lampanti indizi di un imo interessamento esclusivamente verso di lui ed in più gli insegnamenti che le erano stati impartiti ed aveva interiorizzato le impedivano di credere che fare il primo passo fosse la mossa corretta da compiere. Non dello stesso avviso era Carola la quale aveva sempre ostentato la volontà di diventare la ragazza di Leopold e a tal fine, per tre anni, aveva perpetrato e condotto una corte serrata e senza esclusione di colpi.
In piedi, vicino alla statua di Venere posta di contro alla panchina su cui era rimasta seduta Rosalie, Leopold stava per bere un bicchiere di spumante tenendo gli occhi bassi ed attendendo la fine di quel torturante valzer, colonna sonora della vittoria di sua madre dacché non riusciva ad andare da Rosalie per invitarla a ballare. Non ebbe tempo di finire la prima sorsata che gli piombò addosso Carola, odiosa smorfiosa tanto ben vista da Margaret in quanto in tutto e per tutto assai simile a lei, la quale lo trascinò a ballare. Leopold, sbigottito da una così assurda spavalderia femminile, non riuscì a trovare le parole per liberarsi da quella morsa stritolante e non ne ebbe neppure la possibilità perché Carola, dopo una frazione di secondo, si avvinghiò a lui e lo baciò. A quella vista Rosalie non seppe trattenere le lacrime e, per non farsi vedere ancora più affranta di quanto già non fosse, si alzò, riguardò per un attimo gli occhi dell’amato e scappò via avvolta da un lancinante sconforto.