di Giulia Quaranta Provenzano
Oggi continuiamo la chiacchierata con AvA, all’anagrafe Laura Avallone, cantautrice fedele a se stessa e capace di sguardo analitico. A seguire l’intervista che AvA ha rilasciato alla nostra giovane collaboratrice Giulia Quaranta Provenzano.

Ciao Laura e ben ritrovata! È stato detto di te che «AvA è una predatrice, l’incarnazione della Donna alfa Self-made che da un paesino di provincia è arrivata a dirigere delle multinazionali. È una donna che ha calpestato i peggiori stereotipi femminili in scarpe da tennis e che si è conquistata una posizione sociale, alternando alla sua vita diurna lavorativa quella di notte quale mostro affamato di beat, moombahton e afro trap che infuocano le dance hall. La musica di AvA è il manifesto della ribalta personale a discapito di una società che ci vorrebbe tutti inermi, disillusi e arresi all’impotenza. Soprattutto se si nasce donna. Parola d’ordine: SOVRANISMO FEMMINILE». Ebbene, attualmente dirigente di una multinazionale, con quale finalità sei arrivata a ricoprire un tale ruolo di spicco e di potere, decisionale? “Il motivo per cui mi sono letteralmente “inventata” il lavoro che faccio è derivato dall’esigenza di poter disporre del mio tempo in maniera più libera, considerando la mia vita divisa tra lavoro e musica. Oggi lo smart working è un concetto che è diventato chiaro a tutti. Quando invece io ho iniziato a svolgere la mia professione anni fa, lo smart working non era diffuso ma – visto che l’azienda di cui faccio parte è nel campo sanitario internazionale – quando non ero fisicamente all’estero dovevo necessariamente poter fare tutto da casa. Tuttavia una delle soddisfazioni più grandi l’ho avuta allorché alcune persone con cui ho lavorato in passato, gente che mi aveva anche sottopagata (e non solo!) proprio perché donna, è venuta a chiedermi lavoro con la coda tra le gambe. Quella per me è stata una rivalsa. Dimostrare a me stessa, e agli altri, che valevo più di ciò che avevano pensato. Affermare poi che abbia calpestato gli stereotipi di genere in scarpe da tennis è un modo di dire per sottolineare il fatto che stavo comoda mentre lo facevo, ahahahahah”.

E a proposito sempre di definizioni (che io, personalmente, non amo molto in quanto mi pare tendano ad ingabbiare staticamente in una forma), della figura letteraria della femme fatale quale comunemente dipinta anch’ella – ugualmente al dipinto della Donna Alpha – come sicura di sé e dotata di fascino irresistibile, caratterizzata da una bellezza enigmatica e quasi minacciosa che quindi, più che sedurre, ipnotizza (con lo scopo ultimo di distruggere chi cade ai suoi piedi) invece cosa ne pensi? “Personalmente non mi reputo una femme fatale, ché ci vuole un fisico e un’attitudine di un certo livello …e io, per quanto mi difenda bene, non penso di avere né l’uno né l’altra. Però ne ho incontrata qualcuna [di femme fatale] e dunque posso affermare che esistono e che… insomma, Dio le benedica. Di loro penso solo tutto il bene possibile!”.

La comparsa della femme fatale, che in psicoanalisi è definita come modello isterico, è stata fatta coincidere con la nascita dei primi movimenti di emancipazione femminile mentre adesso è diventata, in gran parte, uno stereotipo pubblicitario. Un tempo, prima del Romanticismo e dei già citati movimenti di emancipazione femminile, la donna non aveva quasi rappresentazione nella cultura e non soltanto in questa – tant’è che si erano configurati tre stereotipi di base e cioè la sposa e la madre, la mistica e la strega e/o prostituta …Ad oggi lo spazio alle donne mi sembra ancora troppo, molto, limitato nonché restrittivo e standardizzato… In tutto ciò sei dell’avviso che siano responsabili anche le donne, che spesso cedono a compromessi e sovente in cambio delle briciole dacché rilegate a “cornicette” dei colleghi e superiori? “Da donna detesto dover accusare le donne di qualcosa ma in questo caso, purtroppo, hai ragione. Spesso si è le prime ad essere le carnefici di sé. Quando ho avuto a che fare – nell’ambito lavorativo – con le donne, mi sono sempre dovuta guardare le spalle da loro, tranne che in rarissime occasioni. Ahimè, ho dovuto imparare a farlo a prescindere …perché l’impostazione lavorativa italiana, in generale, è molto distorta inerentemente a ciò. La concezione stessa del lavoro in Italia è distorta! Basti pensare alle parole che si usano per definire il lavoro, in dialetto, cioè “fatica”/vado a “faticare”. Questo aspetto ci dice di come veniva concepito il lavoro in passato (certamente arare un campo era e rimane faticoso…). Il concetto di lavoro come qualcosa che possa appassionare o semplicemente che possa essere vissuto come del tempo comunque trascorso a proprio agio, statisticamente, è lontano dalla mentalità dell’italiano medio. Nessuno, se potesse permetterselo, lavorerebbe no?! Ecco che, fondamentalmente, l’italiano medio ODIA lavorare. L’imprenditore medio ODIA i propri clienti che sono quasi delle seccature. Questo anche perché i contratti sono incerti, gli stipendi sovente sottostimati e l’ambiente lavorativo è un covo di serpi. Chiaramente sto un minimo generalizzando, eppure neanche troppo. È giusto per fare una sintesi semplificata del contesto in cui noi donne ci troviamo. Dato tali premesse, sarebbe lecito aspettarsi collaborazione e solidarietà, se non addirittura sorellanza (o fratellanza), nell’ambito lavorativo… Ecco, a riguardo di uno studio di qualche anno fa (non ricordo la fonte), esso stimava che l’87% dei lavoratori tedeschi si fidava ciecamente dei propri colleghi e si sentiva sicuro di poter contare su di loro. In Italia questa percentuale si riduceva sotto il 30%. Pertanto, se si parte dal presupposto che la concezione del lavoro in Italia è quella che è, che l’ambiente lavorativo idem, va da sé che le donne vengano ulteriormente penalizzate e che di conseguenza siano più accomodanti ai compromessi. L’unica cosa che mi dispiace è che molte donne trovino questo “normale” e non abbiano la voglia di lottare per migliorare qualcosa. E non venga detto che in politica si parla dell’argomento perché appunto è politica, e i fatti continuano a confermare il contrario”.

È stato poi sottolineato come «La musica fu l’ancora di salvezza di Laura Avallone, la magia che la preservò dal cadere in cattive abitudini e pessime amicizie (…). Girò l’Italia da Nord a Sud con la sua band, vinse svariati concorsi e partecipò, tra gli altri, al Festival della Canzone – Musicultura ove arrivò in semifinale con le Calypso Chaos. Ma non era abbastanza. Tutti i sacrifici, gli sforzi e la montagna di soldi spesi per produrre musica ad alti livelli non portavano dove avrebbe voluto e tutto quello che usciva dalle sue dita non la rappresentava più. Di fondo sentiva che stava cambiando e gli incubi popolati da enormi squali bianchi si fecero sempre più frequenti. Decise così di dare una svolta alla sua vita. Di giorno lavorava, di notte studiava e produceva musica. Tuttavia gli incubi non diminuivano, anzi. Gli squali continuavano a popolare i suoi sogni e a confonderla. C’era qualcosa che le sfuggiva, che le mancava. E fu proprio mentre nuotava in mare che capì. Laura doveva morire per fare spazio a qualcun altro che da tutta la vita scalpitava per farsi largo. C’era un demone dentro di lei, quel mostro fatto di denti, branchie e occhi neri che di notte veniva a ricordarle che in realtà era lui il padrone della sua esistenza e che era arrivato il suo momento. Laura si arrese. Appese la chitarra acustica al chiodo, lasciò la timidezza in fondo al mare e si decise a diventare AvA». Chi è stata dunque interiormente Laura e chi è ora AvA? Quando hai preso e cosa ti ha fatto prendere confidenza con la musica? “Ho iniziato a studiare musica che avevo 5/6 anni d’età, quindi praticamente da subito. Nel tempo sono stata impegnata in molti progetti e progettualità… ma le Calypso Chaos furono sicuramente le più importanti che abbia mai avuto prima di AvA, sia a livello personale che musicale. Immagino che con il tempo ci si conosca meglio e, a seconda del periodo, si risponda e si dia voce a diverse sfumature della propria indole. Laura e AvA restano sostanzialmente le due facce della stessa medaglia. AvA alla fine è solo Laura con qualche anno in più, non di meno con la stessa voglia di ballare e di fare casino di sempre”.

Infine tu credi nella reincarnazione e, in caso affermativo, secondo quali termini? Ritieni ovvero che la vita sia questione di karma per cui lo spirito degli esseri umani, dopo aver visto il proprio operato, vuole ritornare nella materia per rimediare ai precedenti errori compiuti sulla Terra? “Ci credo fino a un certo punto, anche se mi piacerebbe non fosse così nel senso che preferirei almeno ricordare qualcosa (o qualcuno!) della vita precedente – sarebbe tutto più semplice. Diciamo che non amo l’idea secondo la quale le cose debbano necessariamente essere complicate per avere un senso. Capisco che le difficoltà e le sfide ci aiutino a crescere e a diventare migliori, ma che addirittura servano vite su vite per rimediare a errori di cui non abbiamo memoria mi dà più l’idea di una tortura che di una redenzione. Oppure mi viene da pensare che quello che c’è dall’altra parte, qualsiasi cosa sia, sia meno bello di una vita difficile. Insomma, una scelta tra il meno peggio… brutto no?”.