È “Primo Giorno” il nuovo singolo della coppia formata da Riccardo Riccio e Miriam Santangelo

di Giulia Quaranta Provenzano
Oggi vi proponiamo una doppia intervista a Riccardo Riccio e Miriam Santangelo, che sono una coppia sia nella musica che nella vita di tutti i giorni. Occasione per fare alcune chiacchiere con questi due giovani è stata l’uscita del loro nuovo singolo, intitolato “Primo Giorno”. A seguire l’intervista che hanno rilasciato alla nostra collaboratrice Giulia Quaranta Provenzano. 

Ciao! È uscito ieri, 4 luglio, in anteprima nazionale su ALL MUSIC ITALIA il videoclip del vostro brano “PRIMO GIORNO”. Da oggi il vostro singolo, pubblicato dall’etichetta Terzo Millennio Records, è in radio e disponibile su tutti i digital stores. Ebbene, da quale esigenza o comunque sentire interiore nasce il testo? RICCARDO & MIRIAM – Era un periodo molto particolare per entrambi quando abbiamo scritto “PRIMO GIORNO”e ciò che ci ha accumunato è stato proprio il desiderio di esternare quante più emozioni possibili. Lo abbiamo fatto, racchiudendole ed indirizzandole tutte verso ciò che in quel momento ci ha fatto sentire e stare meglio: noi due, questo brano e le sue note”.

Il testo e la base della canzone “PRIMO GIORNO” sono stati interamente scritti e prodotti da voi due, musica che si avvicina al genere Future Chill Pop che vorreste presentare e portare in Italia così da arricchire sempre di più il mondo della musica nel nostro Paese …il mondo musicale italiano da cosa lo vedete caratterizzato e come mai pensate sia tale e non maggiormente ricco di rami? RICCARDO – A mio parere, l’Italia è decisamente troppo ancorata alle mode e purtroppo la musica è diventata una di esse. Molte persone ascoltano un determinato genere giusto perché “fa figo”, alienandosi da ciò che è realmente il mondo della musica. Io ascolto anche musica classica se mi gira, e non mi vergogno di dirlo bensì ne vado fiero, e a volte la produco pure. Se non rilascio brani del genere è solo ed unicamente perché non è uno dei generi che mi sento in grado di rappresentare. Cosa contraria invece per il genere Future Pop e Future Chill Pop. MIRIAM – Al giorno d’oggi tutti possono “fare musica” e purtroppo, a mio avviso, oramai, non le si attribuisce più il giusto valore. Si ascolta quell’“artista X” per semplice moda, ché se non conosci quella “canzone X” che tutti cantano e conoscono a memoria sei uno “sfigato”. Io e Riccardo sentiamo il bisogno di farci conoscere perché vicendevolmente crediamo nelle qualità che ciascuno di noi possiede. Abbiamo sfumature diverse, ma vissuti simili ed entrambi abbiamo tanta voglia di esternare ciò che sinora abbiamo tenuto dentro. L’intento è quello di emozionare ed arrivare al cuore della gente”.  

Come descrivereste il genere Future Chill Pop? RICCARDO – Come una sorta di Pop puramente elettronico alternativo, con vocal chops sempre presenti. MIRIAM – e nel nostro caso, talvolta, con qualche richiamo o sfumatura Jazz o Rock. Ve ne renderete conto più avanti, ve lo assicuro”.

In “PRIMO GIORNO” tu, Riccardo, esordisci con l’interiezione «Ehy» che serve ad attirare l’attenzione di qualcuno (in tono di confidenziale saluto) o come risposta al saluto di una persona familiare o ancora, come in questo caso, sembra fungere da energico richiamo. E a riguardo proprio di richiami e sollecitazioni, cosa trovi invitante e che esercita su di te attrazione intesa come spinta all’accostamento o al contatto? Beh, in questo caso fanno tanto gli sguardi e i sorrisi, le parole non dette e quelle appena abbozzate ma nella maniera più giusta… io mi lascio molto trascinare da queste cose. Appunto un “Ehy” in un momento difficile o sentito, se detto col giusto calore e seguito da una carezza, penso possa far rinvigorire chiunque”.          

Nella canzone “PRIMO GIORNO” sempre tu, Riccardo, subito dopo canti «(…) Sei stata vicina col niente/ Ma so che lo sarai per sempre/ Ti vivo vicino anche da lontano/ Ora sono vivo ora sono insano (…)». Qui hai utilizzato «niente» come avverbio di quantità, per  dire “in nessuna quantità”, ad anticipare il concetto di mancanza che viene subito dopo reso dalla locuzione avverbiale «da lontano»? Personalmente cosa ti fa sentire vicina e vicino ad una persona (e, per affinità tematica, ti domando qual è il tuo punto di vista sulle relazioni a distanza)? “Rispondendo molto semplicemente è il cuore, seguito dal cervello, che mi fa sentire vicino ad una persona. Ossia, sentimento più complicità. Non a caso, anche se le odio, qualora si dovesse presentare la necessità per casi di forza maggiore, sarei pronto ad affrontare con tutta la serenità possibile una relazione a distanza.

I versi di “PRIMO GIORNO” che recitano «(…) Alle stelle no non si mente/ Ora sarai mia per sempre/ Vivremo da Dei se mi prendi la mano/ Su baby fallo che adesso voliamo (…)» stanno a significare che il desiderio (rappresentato dalle «stelle») non lo si può ingannare, cioè che mentire a se stessi non è possibile perché – pur negando la verità agli altri – ognuno di noi dentro di sé sa quali sono le proprie speranze ed autentici desii? RICCARDO – Assolutamente sì, io sento che soltanto le stelle percepiscono e comprendono appieno i miei obbiettivi e desideri, e per questo motivo ho messo in ballo loro …ma tutto ciò è in rapporto alla propria indole e coscienza. Si possono celare ed omettere le cose agli altri, tuttavia non a se stessi o, nel mio caso, non alle stelle…”.

Cos’è e quali sono i connotati dell’Amare, per quello che vi riguarda? E cosa ne pensate della monogamia?RICCARDO & MIRIAM – Per amare bisogna essere affini, bisogna sapersi comprendere e supportare. È necessario volersi bene, da amici e da amanti… e c’è bisogno di dialogo, sempre, che questo non può mai mancare. Se la persona che si ha a fianco completa il proprio mondo, non serve nessun altro/altra”.

Miriam, tu canti «(…) Baby non è ancora tempo per le lacrime/ Ti asciugherò il dolore per il resto delle pagine/ Se questo è un sogno vorrei soltanto rimanere/ Ancora fra le mie parti/ Non mi dispiace (…)». Vi è qualcosa/qualcuno per cui, nel tuo vissuto sino ad oggi, ti sei trovata a provare un dolore intenso e non facilmente passeggero tanto da averti “segnata” o comunque cambiata nettamente rispetto al passato?Con la frase «(…) Baby non è ancora tempo per le lacrime/ Ti asciugherò il dolore per il resto delle pagine (…)» ho voluto dire che il dolore del passato è ormai andato via e se dovesse succedere qualcosa di brutto al mio lui ci sarò io al suo fianco. Ci sono state sicuramente molte vicende che mi hanno cambiata, mi hanno “segnata“ e fortificata tanto da rendermi la persona che oggi sono diventata”.

In un rapporto di coppia cosa cerchi e cosa ti ferisce al punto tale da non riuscire a perdonarlo (e, di conseguenza, al punto da non riuscire a perdonare il tuo compagno)? MIRIAM – In un rapporto di coppia quello che, secondo me, non deve mai mancare è il dialogo e la spontaneità con la quale affrontare qualsiasi genere o tipo di discorso. Ciò sta alla base di una relazione. Mi piace instaurare un certo feeling sin dall’inizio, fondare solide radici e, se ne vale la pena, costruirci sopra tante cose belle. Non riuscirei a perdonare le molteplici menzogne, le frasi fatte e il tradimento”.

E sempre in “PRIMO GIORNO” poi tu, Riccardo, canti «(…) Come uno strano dejavu/ Ti ho avuta ma non lo ricordo più/ Ho paura di te che sarai per me/ Ma comunque ti voglio sempre di più/ Scrivo una storia di nuvole/ Scrivo per te perché sai che/ Tu sei me io son te/ Sei droga mi drogo solo di te (…)». La parola «dejavu», che è un fenomeno psichico rientrante nelle forme di alterazione dei ricordi, letteralmente significa “già visto” e consiste in fatti totalmente casuali di cose, animali o persone che entrano in contatto col soggetto, provocando la sensazione di un’esperienza precedentemente vissuta tanto da venir chiamato pure «falso riconoscimento». Il forte senso di famigliarità che si prova nell’esperienza “precedente” del dejavu viene perlopiù attribuita ad un sogno. Tu concordi con la psicologia e la scienza oppure sei dell’idea che la sensazione di aver già vissuto una situazione sia collegata a vite passate o magari al futuro? Onestamente credo ad entrambe le cose. Il dejavu, secondo me, può essere il ricordo di un sogno …come anche la similarità con una situazione vissuta in un’altra vita passata. Appunto per questo nel videoclip del brano è raccontato un parallelismo tra le nostre vite, mia e di Miriam”.   

Il fatto che tu abbia paragonato la lei di “PRIMO GIORNO” alla «droga» è per sottolineare che questa ragazza “aggiunge sapore alla vita” così come alcune sostanze vegetali secche, aromatiche (spezie), danno maggior sapore alle bevande o ai cibi (infatti il termine “dròga” probabilmente deriva dall’olandese droog, secco/cosa secca)? Oppure la parola «droga» allude ad una tua concezione del rapporto di coppia come potenziale produttore, come rischio, di una dipendenza tale da portare all’alterazione/modificazione di sé? RICCARDO – Decisamente il secondo significato, ma in un senso ancora un po’ più metaforico ovvero ho pronunciato le parole «(…) Sei droga mi drogo solo di te (…)» come se fosse una dichiarazione …Un po’ come dire «Sono dipendente da te, voglio e vorrò sempre e solo te»”.

Riccardo, in “PRIMO GIORNO” canti inoltre «(…) Ricordo il primo giorno con te/ Io presa da te tu impaurita di me/ Non conoscevi un quarto di ciò son io/ Nessuno ci divide nemmeno il tuo Dio// So che lo vuoi ma mordi piano/ So che mi senti non mi allontano/ Non ho niente da perdere/ È tutto da prendere lasciati sorprendere// Dicevi che non mi sentivi sincero/ Dicevi sembrava copiato da un film/ Si davvero sì per davvero/ Come quando sei stata lontana ma c’ero/ Il mio sangue circola per te sul serio/ Sì sul serio/ Sì sul serio (…)» …E per ciò che concerne Dio, per quanto immagino tu lo abbia qui nominato più che altro poeticamente, credi nel destino quale necessità che sembra determinare gli eventi e che appare esterna e superiore alla volontà dell’uomo o piuttosto sei del parere che siamo soltanto noi gli artefici della nostra vicenda personale?Nulla, dal mio punto di vista, accade per caso e questo è poco ma sicuro. Credo che ci siano persone destinate a fare grandi cose, eppure ciò solo perché la loro determinazione nel compiere queste “cose” non morirà nemmeno quando loro stessi passeranno a miglior vita. D’altro canto, non va mai dimenticato che siamo sempre in tempo e in grado di mutare facilmente la nostra esistenza”.

Miriam, tu prosegui poi cantando «(…) No non importa se domani accadrà/ Non mi importa se domani sarà/ Sfiderò i mostri perché in testa ci sei tu/ No non voglio ripetertelo più/ Non voglio soffrire/ Non voglio morire è lì accanto che voglio dormire (…)». Quando una persona ti entra “in testa”?Una persona mi entra in testa nel momento in cui inizio a pensarla molteplici volte in un giorno. Dopo il resto viene da sé. E me ne rendo conto pian piano …cerco di capire se mi piace davvero, faccio alcune domande e tento così di comprendere se [quella persona] fa per me”.

Quali sono invece gli aspetti per cui può capitare che tu ti senta timorosa ed insicura nell’iniziare a condividere il tuo tempo e spazio con un partner – e dunque quali sono “i mostri” contro cui, in tal caso, sai che devi combattere?MIRIAM – Prima di cominciare un “qualcosa”, mi piace assicurarmi che tutto sia affine e che ci possa essere dialogo e comprensione. Non ho, invece, alcun tipo di timore a tal riguardo [vale a dire prima di iniziare e all’inizio di una relazione]”.

Infine, il sopracitato verbo «mordi» e il vocabolo «sangue» mi hanno fatto venire in mente la figura del vampiro e “Les métamorphoses su vampire” di Charles Baudelaire ma altresì il film “Il Violinista del diavolo” [https://youtu.be/76AH4hmLnRE]: dal vostro punto di vista in che rapporti stanno la carne, la morte e il diavolo (anche e proprio in relazione ai sogni eroici ed erotici)?RICCARDO & MIRIAM – La carne, la morte e il diavolo sono tre elementi accomunati tra loro e che ci accomunano. Siamo fatti di carne; la morte può essere intesa anche come senso di rinascita; tutti i giorni noi siamo stuzzicati dal diavolo che ci pone dinanzi a delle scelte, quali «prendere o lasciare».

Intervista ad AvA, cantando e chiacchierando di donne e società

di Giulia Quaranta Provenzano
Oggi continuiamo la chiacchierata con AvA, all’anagrafe Laura Avallone, cantautrice fedele a se stessa e capace di sguardo analitico. A seguire l’intervista che AvA ha rilasciato alla nostra giovane collaboratrice Giulia Quaranta Provenzano.

Ciao Laura e ben ritrovata! È stato detto di te che «AvA è una predatrice, l’incarnazione della Donna alfa Self-made che da un paesino di provincia è arrivata a dirigere delle multinazionali. È una donna che ha calpestato i peggiori stereotipi femminili in scarpe da tennis e che si è conquistata una posizione sociale, alternando alla sua vita diurna lavorativa quella di notte quale mostro affamato di beat, moombahton e afro trap che infuocano le dance hall. La musica di AvA è il manifesto della ribalta personale a discapito di una società che ci vorrebbe tutti inermi, disillusi e arresi all’impotenza. Soprattutto se si nasce donna. Parola d’ordine: SOVRANISMO FEMMINILE». Ebbene, attualmente dirigente di una multinazionale, con quale finalità sei arrivata a ricoprire un tale ruolo di spicco e di potere, decisionale? “Il motivo per cui mi sono letteralmente “inventata” il lavoro che faccio è derivato dall’esigenza di poter disporre del mio tempo in maniera più libera, considerando la mia vita divisa tra lavoro e musica. Oggi lo smart working è un concetto che è diventato chiaro a tutti. Quando invece io ho iniziato a svolgere la mia professione anni fa, lo smart working non era diffuso ma – visto che l’azienda di cui faccio parte è nel campo sanitario internazionale – quando non ero fisicamente all’estero dovevo necessariamente poter fare tutto da casa. Tuttavia una delle soddisfazioni più grandi l’ho avuta allorché alcune persone con cui ho lavorato in passato, gente che mi aveva anche sottopagata (e non solo!) proprio perché donna, è venuta a chiedermi lavoro con la coda tra le gambe. Quella per me è stata una rivalsa. Dimostrare a me stessa, e agli altri, che valevo più di ciò che avevano pensato. Affermare poi che abbia calpestato gli stereotipi di genere in scarpe da tennis è un modo di dire per sottolineare il fatto che stavo comoda mentre lo facevo, ahahahahah”.

E a proposito sempre di definizioni (che io, personalmente, non amo molto in quanto mi pare tendano ad ingabbiare staticamente in una forma), della figura letteraria della femme fatale quale comunemente dipinta anch’ella – ugualmente al dipinto della Donna Alpha – come sicura di sé e dotata di fascino irresistibile, caratterizzata da una bellezza enigmatica e quasi minacciosa che quindi, più che sedurre, ipnotizza (con lo scopo ultimo di distruggere chi cade ai suoi piedi) invece cosa ne pensi? “Personalmente non mi reputo una femme fatale, ché ci vuole un fisico e un’attitudine di un certo livello …e io, per quanto mi difenda bene, non penso di avere né l’uno né l’altra. Però ne ho incontrata qualcuna [di femme fatale] e dunque posso affermare che esistono e che… insomma, Dio le benedica. Di loro penso solo tutto il bene possibile!”.

La comparsa della femme fatale, che in psicoanalisi è definita come modello isterico, è stata fatta coincidere con la nascita dei primi movimenti di emancipazione femminile mentre adesso è diventata, in gran parte, uno stereotipo pubblicitario. Un tempo, prima del Romanticismo e dei già citati movimenti di emancipazione femminile, la donna non aveva quasi rappresentazione nella cultura e non soltanto in questa – tant’è che si erano configurati tre stereotipi di base e cioè la sposa e la madre, la mistica e la strega e/o prostituta …Ad oggi lo spazio alle donne mi sembra ancora troppo, molto, limitato nonché restrittivo e standardizzato… In tutto ciò sei dell’avviso che siano responsabili anche le donne, che spesso cedono a compromessi e sovente in cambio delle briciole dacché rilegate a “cornicette” dei colleghi e superiori? “Da donna detesto dover accusare le donne di qualcosa ma in questo caso, purtroppo, hai ragione. Spesso si è le prime ad essere le carnefici di sé. Quando ho avuto a che fare – nell’ambito lavorativo – con le donne, mi sono sempre dovuta guardare le spalle da loro, tranne che in rarissime occasioni. Ahimè, ho dovuto imparare a farlo a prescindere …perché l’impostazione lavorativa italiana, in generale, è molto distorta inerentemente a ciò. La concezione stessa del lavoro in Italia è distorta! Basti pensare alle parole che si usano per definire il lavoro, in dialetto, cioè “fatica”/vado a “faticare”. Questo aspetto ci dice di come veniva concepito il lavoro in passato (certamente arare un campo era e rimane faticoso…). Il concetto di lavoro come qualcosa che possa appassionare o semplicemente che possa essere vissuto come del tempo comunque trascorso a proprio agio, statisticamente, è lontano dalla mentalità dell’italiano medio. Nessuno, se potesse permetterselo, lavorerebbe no?! Ecco che, fondamentalmente, l’italiano medio ODIA lavorare. L’imprenditore medio ODIA i propri clienti che sono quasi delle seccature. Questo anche perché i contratti sono incerti, gli stipendi sovente sottostimati e l’ambiente lavorativo è un covo di serpi. Chiaramente sto un minimo generalizzando, eppure neanche troppo. È giusto per fare una sintesi semplificata del contesto in cui noi donne ci troviamo. Dato tali premesse, sarebbe lecito aspettarsi collaborazione e solidarietà, se non addirittura sorellanza (o fratellanza), nell’ambito lavorativo… Ecco, a riguardo di uno studio di qualche anno fa (non ricordo la fonte), esso stimava che l’87% dei lavoratori tedeschi si fidava ciecamente dei propri colleghi e si sentiva sicuro di poter contare su di loro. In Italia questa percentuale si riduceva sotto il 30%. Pertanto, se si parte dal presupposto che la concezione del lavoro in Italia è quella che è, che l’ambiente lavorativo idem, va da sé che le donne vengano ulteriormente penalizzate e che di conseguenza siano più accomodanti ai compromessi. L’unica cosa che mi dispiace è che molte donne trovino questo “normale” e non abbiano la voglia di lottare per migliorare qualcosa. E non venga detto che in politica si parla dell’argomento perché appunto è politica, e i fatti continuano a confermare il contrario”.   

È stato poi sottolineato come «La musica fu l’ancora di salvezza di Laura Avallone, la magia che la preservò dal cadere in cattive abitudini e pessime amicizie (…). Girò l’Italia da Nord a Sud con la sua band, vinse svariati concorsi e partecipò, tra gli altri, al Festival della Canzone – Musicultura ove arrivò in semifinale con le Calypso Chaos. Ma non era abbastanza. Tutti i sacrifici, gli sforzi e la montagna di soldi spesi per produrre musica ad alti livelli non portavano dove avrebbe voluto e tutto quello che usciva dalle sue dita non la rappresentava più. Di fondo sentiva che stava cambiando e gli incubi popolati da enormi squali bianchi si fecero sempre più frequenti. Decise così di dare una svolta alla sua vita. Di giorno lavorava, di notte studiava e produceva musica. Tuttavia gli incubi non diminuivano, anzi. Gli squali continuavano a popolare i suoi sogni e a confonderla. C’era qualcosa che le sfuggiva, che le mancava. E fu proprio mentre nuotava in mare che capì. Laura doveva morire per fare spazio a qualcun altro che da tutta la vita scalpitava per farsi largo. C’era un demone dentro di lei, quel mostro fatto di denti, branchie e occhi neri che di notte veniva a ricordarle che in realtà era lui il padrone della sua esistenza e che era arrivato il suo momento. Laura si arrese. Appese la chitarra acustica al chiodo, lasciò la timidezza in fondo al mare e si decise a diventare AvA». Chi è stata dunque interiormente Laura e chi è ora AvA? Quando hai preso e cosa ti ha fatto prendere confidenza con la musica? “Ho iniziato a studiare musica che avevo 5/6 anni d’età, quindi praticamente da subito. Nel tempo sono stata impegnata in molti progetti e progettualità… ma le Calypso Chaos furono sicuramente le più importanti che abbia mai avuto prima di AvA, sia a livello personale che musicale. Immagino che con il tempo ci si conosca meglio e, a seconda del periodo, si risponda e si dia voce a diverse sfumature della propria indole. Laura e AvA restano sostanzialmente le due facce della stessa medaglia. AvA alla fine è solo Laura con qualche anno in più, non di meno con la stessa voglia di ballare e di fare casino di sempre”.  

Infine tu credi nella reincarnazione e, in caso affermativo, secondo quali termini? Ritieni ovvero che la vita sia questione di karma per cui lo spirito degli esseri umani, dopo aver visto il proprio operato, vuole ritornare nella materia per rimediare ai precedenti errori compiuti sulla Terra? “Ci credo fino a un certo punto, anche se mi piacerebbe non fosse così nel senso che preferirei almeno ricordare qualcosa (o qualcuno!) della vita precedente – sarebbe tutto più semplice. Diciamo che non amo l’idea secondo la quale le cose debbano necessariamente essere complicate per avere un senso. Capisco che le difficoltà e le sfide ci aiutino a crescere e a diventare migliori, ma che addirittura servano vite su vite per rimediare a errori di cui non abbiamo memoria mi dà più l’idea di una tortura che di una redenzione. Oppure mi viene da pensare che quello che c’è dall’altra parte, qualsiasi cosa sia, sia meno bello di una vita difficile. Insomma, una scelta tra il meno peggio… brutto no?”.

Una piacevolissima chiacchierata con AvA, persona ed artista titanica

di Giulia Quaranta Provenzano
È con profondo piacere che oggi vi presentiamo una donna straordinaria, Laura Avallone. A seguire l’intervista ad AvA, cantautrice caratterizzata da un’affascinante schiettezza fuori dalle comuni sovrastrutture e al di là dei limiti (auto)imposti dall’umana natura. 

Ciao! Laura Avallone all’anagrafe, qual è l’origine e il motivo del tuo nome d’arte AvA?  “Ciao Giulia… In realtà non c’è alcuna dietrologia stilistica per quanto riguarda il mio nome d’arte. AvA è l’iniziale del mio cognome, nonché soprannome con cui mi chiamano molti amici. Easy peasy!”

Come ti descriveresti interiormente come persona ed in quanto cantante? “Tendenzialmente sono una persona timida e molto riservata, ma che nasconde inquietudine e una strana propensione ad atteggiamenti un po’ estremi. Credo che AvA esista proprio per permettere a Laura di dare sfogo alla sua indole più animalesca”.

Da piccola chi sognavi di diventare “da grande” e che bambina sei stata?Da piccola sognavo di diventare una cantante e musicista, che è quello che poi sono – più o meno – diventata. Sono stata una bambina molto vivace, curiosa e a tratti problematica a causa di un’eccessiva  sensibilità, davvero pressoché totalmente incontrollata, che mi faceva piangere per qualsiasi cosa. È, quest’ultimo, un lato di me che ho dovuto imparare a controllare al punto da diventare poi quasi anaffettiva, eheheheh!”.

Vi è qualcosa che vorresti rivelare ai nostri lettori che, magari, non hai mai avuto modo di condividere prima? “…Che nonostante io sia di Roma tifo Milan?!?!” [N.d.R. ride di gusto].

Cosa rappresenta per te la musica in generale e il tuo fare musica in particolare? Quale cioè ritieni essere il potere della Musica nonché il suo principale pregio, valore e finalità? “Molti ripetono [sulla scia di Cvetan Todorov] che la bellezza salverà il mondo; io sono sicura che sarà la musica a salvare la bellezza laddove appunto la Bellezza non si salverà da sola. La Musica è potere, è linguaggio universale, è energia pura. Dubito che esista un’altra arte, oltre la Musica, che abbia la stessa concentrazione di super poteri e la stessa capacità di influenzare intere masse di persone e singoli individui al punto di cambiare loro l’umore. La musica è una frequenza che ci riallinea con il nostro karma”.

Dal tuo punto di vista c’è un qualcosa che dovrebbe o no caratterizzare l’Arte e gli Artisti “meritevoli della A maiuscola”? “Ho sempre pensato che gli artisti veri debbano essere un esempio di lavoro, disciplina e dedizione. Ma guardando all’attuale panorama musicale italiano ad esempio, o mi sono sbagliata di brutto, o artisti con la -A maiuscola non ce ne sono più molti in giro. Sicuramente l’arte cristallizza le cose, gli avvenimenti, le emozioni e le persone… e ha il potere di renderli immortali. Quindi, secondo me, i veri artisti sono quelli capaci di lasciare un segno memorabile nei secoli”.

Vi è qualcuno al quale ti ispiri nella vita e nel tuo fare musica, e con il quale vorresti collaborare? “Qualcuno al quale mi ispiro onestamente non c’è, tuttavia con cui vorrei collaborare sì: Dardust. Ritengo Dario Faini il miglior musicista e produttore che ci sia al momento. Un mix perfetto tra eleganza stilistica e cafonaggine pura all’occorrenza. Sarebbe il giusto partner per un disco di AvA”.

Dal 28 maggio è in radio e in digitale il singolo “CANZONE TRISTE” (distribuzione Artist First – https://youtu.be/CjvuCvJxZFk), che segna il tuo ritorno alla musica. Ebbene, con quale precisa aspettativa, proposito e obiettivo è venuta alla luce questa canzone? “Quando pubblico un brano non lo faccio mai riponendo chissà quali aspettative in esso, ché dopotutto faccio musica solo per esigenza personale. L’idea di ottenere successo mi ha abbandonata già da tempo. ‘CANZONE TRISTE‘ è il secondo di tre brani che raccontano i punti deboli di AvA che, se nel 2019 si è presentata al pubblico con l’immagine di donna squalo, emancipata ed estrema, ha però anche le sue vulnerabilità”.  

Vi è un messaggio che, tramite il tuo brano “CANZONE TRISTE”, vorresti trasmettere agli ascoltatori e quale memo alla te stessa dei prossimi anni? “Hai detto benissimo, “CANZONE TRISTE” è soprattutto un’auto dedica o meglio un remainder per il futuro… ossia «Ricordati di abbracciare il dolore, invece di combatterlo» in quanto, solo così, avrà l’effetto di balsamo sulle ferite. È un’ode alla tristezza, un invito ad accettarla e concedersela perché fa parte della gamma delle emozioni di ciascuno di noi e, per quanto sia pesante da sopportare, ha la sua importanza. Credo che solo attraverso il dolore si diventi veramente forti e non, all’opposto, evitandolo”.

Il singolo “CANZONE TRISTE”, che segue la tua precedente canzone “Ti auguro ogni male” [https://youtu.be/caFsI9N6AcY], è il secondo atto di – quella che è stata definita – una trilogia che racconta un’unica storia che si sviluppa tra testo e immagini… “Sì, vi è un’unica storia che si sviluppa attraverso tre brani che sono legati l’uno all’altro anche a livello videografico. Le canzoni possono essere interpretate in mille modi diversi, mentre le immagini sono dirette e mandano messaggi più chiari. Utilizzando le stesse attrici per tutti e tre i video, viene sottolineato inequivocabilmente che la storia è sempre la medesima – che si sciorina appunto attraverso tre diverse canzoni. I singoli da soli non potrebbero trasmettere l’idea, non so se mi spiego… Mi è sembrata una maniera interessante per conferire un’identità precisa a questa sorta di “trilogia del dolore”. Un’unica storia, tre brani differenti con tre videoclip tutti legati fra loro dalla stessa trama e dagli stessi personaggi”.  

È stato infine affermato che «Dopo il primo disco e un anno, il 2019, trascorso da super donna, AvA ha ceduto alle richieste incalzanti che le arrivavano dai suoi ascoltatori e dagli addetti ai lavori, riguardo la loro curiosità verso un eventuale lato più umano e meno “animale”». Cosa pensi abbiano intenso costoro con l’espressione “super donna” e perché “animale” (forse quest’ultimo termine fa riferimento al tuo essere, almeno nei testi citati – mi sembra – diretta e senza filtri, senza manti di finto quanto ostentato buonismo di facciata dato il tuo «Ti auguro ogni male»)? “«Super donna» è un termine che non ho mai amato particolarmente ma, dato che troppe persone ragionano per termini di paragone quanto più semplificati, ho capito che è una definizione che viene utilizzata per descrivere semplicemente una donna molto emancipata. Questo ci fa capire quanto una condizione che dovrebbe essere naturale, venga vista come qualcosa di eccezionale. Onestamente la mentalità che si nasconde dietro all’uso inconscio di una certa, simile, terminologia [«Super donna»] mi scandalizza e non di meno, è evidente che, una donna indipendente e sicura di sé è ancora qualcosa che sorprende. A volte queste dinamiche mi fanno sorridere, altre volte mi imbestialisco e tiro fuori lo squalo che c’è in me …ecco perché mi hanno dato dell’animale, ahahahahah. Sono, resto, la madre degli squali… più animale di così!!!!”.

Un’intensa intervista al cantautore e straordinario uomo Paolo Simoni

di Giulia Quaranta Provenzano
Paolo Simoni, apprezzato cantautore, ha rilasciato una lunga e interessante intervista alla nostra collaboratrice Giulia Quaranta Provenzano.

«(…) Non credo ai colpi di fulmine. Credo, invece, ai colpi e agli incontri del destino. Se due anime devono incontrarsi in un certo giorno, ad una certa ora, in una certa città, accadrà. Quando accade è una benedizione e allora crollano tutti i cliché della pubertà. Sono insieme alla mia compagna da quindici anni. È una bella donna, ma non è per questo che stiamo insieme. Sarebbe crollato tutto già parecchio tempo fa. Mi sento molto fortunato. Mi rendo conto che anche ciò oggi è diventato una rarità» ha affermato il cantautore Paolo Simoni. A seguire la nostra profonda chiacchierata.  

Ciao Paolo! Da piccolo chi sognavi di diventare “da grande” e che bambino sei stato? “Ciao Giulia …Sin da piccolo sognavo di fare musica. La strada era già tracciata. In generale, sapevo che avrei avuto a che fare con le note. Ad un certo punto volevo iscrivermi a veterinaria ma, dopo aver visto aprire un gatto, ho capito che non avrei retto. Sono cresciuto a Porto Garibaldi, in provincia di Ferrara. La mia famiglia, per trent’anni, ha avuto un ristorante. Lavoravano sempre. Stacanovisti. Io stavo nel retro cortile con mia nonna. Giocavo, sognavo e vivevo praticamente sul porto. Sono sempre stato un bambino “particolare” a detta dei miei paesani e familiari. Organizzavo dei teatri per strada, suonavo ovunque. Sono stato obeso per tanti anni. Le ragazzine non mi guardavano ed è stata la mia fortuna. Il tempo che i miei amici passavano a pomiciare, io lo impiegavo a suonare il pianoforte e ad ascoltare musicassette. A quattordici anni sono uscito di casa. Prendevo treni e corriere, dormivo dove mi capitava. Un periodo bellissimo”.

Cosa rappresenta per te la musica in generale e il tuo fare musica in particolare? Quale cioè ritieni essere il potere della Musica nonché il suo principale pregio, valore e finalità? “Per me, la musica è un dono del cielo. L’arte più nobile. Impalpabile. È talmente alta che sfugge a qualsiasi base materiale. Il suono non lo si può toccare, non lo si può vedere… a differenza di un quadro o di una scultura. Lo si può solo catturare con la registrazione tuttavia è, in definitiva, una riproduzione di quello che accade nel momento in cui si fa musica. Si utilizza sì un supporto, per agguantare i suoni, ma è pur sempre solamente la riproposta di qualcosa che è già accaduto e che comunque non si può concretizzare matericamente. Dal mio punto di vista, la finalità della Musica è quella di risvegliare l’uomo e di riconnetterlo con la sua vera patria. Tutto è musica nel cosmo, anche il silenzio. Ognuno di noi ha una sinfonia che gli risuona dentro. C’è da fare però una distinzione tra la musica buona e quella non buona. Come, d’altronde, in tutti gli aspetti dell’esistenza. C’è una musica per intrattenere e una per guarire. C’è poi un tipo di musica che può fare entrambe le cose. Perfino le parole pronunciate e cantate hanno un suono. Mi fermo qui, ma si potrebbe dire inoltre molto altro. La musica è un grande mistero, da sondare”.  

Da lunedì 17 maggio è online il video del tuo nuovo singolo “L’ANIMA VUOLE” [https://youtu.be/Gwq_SFpykoM], con la partecipazione speciale di Roberto Vecchioni. Estratto – questo – dall’album di inediti, piano e voce, “Anima” (Riservarossa Records / Warner Music). Ebbene, con quale aspettativa, proposito e obbiettivo è venuta alla luce questa canzone – e vi è un messaggio che, tramite codesto brano, vorresti trasmettere? “Il singolo “L’ANIMA VUOLE”è nato con la voglia di raccontare il materialismo manovrato da un pensiero unico collettivo. Vuole raccontare del destino degli uomini, della scienza oramai considerata come sola nuova fede in cui credere e dell’anima dimenticata e circoscritta dal potere dei numeri. Ci si scorda di continuo che questo suolo lo si deve lasciare prima o poi… Se non si tracciano qui delle vie per il proprio spirito, cosa si pensa di ritrovare di là? Bisogna prepararsi. È sulla Terra che si fanno i giochi. L’anima ha bisogno di un ponte, che occorre edificare. A chi non crede in queste cose dico «Ci si occupi, per lo meno, di lasciare questo Pianeta meglio di come lo si è trovato. Se si è atei, almeno, si cerchi di compiere azioni morali»”.

È stato affermato che in “L’ANIMA VUOLE” la tua voce e quella del Maestro Vecchioni, appartenenti a due differenti generazioni, si sono incontrate per cantare di temi importanti quali la libertà di pensiero e di parola, e appunto del materialismo che caratterizza i tempi attuali sino ad impedire all’anima di esprimersi nella maniera più autentica. Tu quale credi siano i connotati della libertà e che essa sia vivibile dagli esseri umani? “Il tema della libertà è centrale per noi esseri umani. Libertà e necessità sono le due sfere sulle quali ci muoviamo. Diventare uomini liberi sarebbe il coronamento della nostra esistenza. Spesso ci illudiamo di essere liberi, ma non lo siamo per niente. Confondiamo questo concetto con il “faccio quello che mi pare o lotto per i miei diritti”. Tutte cose sacrosante, eppure diventare uomini liberi è davvero molto complesso. Per divenire liberi prima bisogna conoscere. Questo “conoscere” non è quello che si impara a scuola. Si tratta di altro. In questo periodo storico [per l’appunto, di pensiero libero] ce n’è pochissima di conoscenza. Tutti urlano, credendo di avere ragione. Nel silenzio e nello studio di un certo tipo si possono trovare, all’opposto, delle risposte. Bisogna uscire dai pensieri unici e cercare”.  

Hai mai riflettuto sulla questione della Teodicea ovvero sul problema, se Dio è buono-onnipotente-onnipresente, della sussistenza del male non soltanto morale bensì in natura, nel mondo? “Sono dell’avviso che, oltre a Dio, ci sono le forze cosiddette del male. È evidente. Ed è l’uomo che deve attivarsi e sforzarsi di uscire dalla propria animalità. Tutto, intorno a noi, ha un’origine spirituale. La nostra natura umana non è di questo mondo. L’uomo stesso, in base alle sue scelte, sempre si ritrova ad un bivio. Noi attraverso il libero arbitrio definiamo il nostro destino. Queste nostre scelte hanno inevitabilmente delle conseguenze. Siamo noi che decidiamo se seguire il bene oppure no. Quello che ci accade è inoltre una conseguenza delle nostre azioni passate. Responsabilità, tuttavia, è la parola giusta. Debbo aggiungere che adesso imperversa una spiritualità materialista, da cui mi tengo bene alla larga. In questi casi, meglio frequentare un ateo totale. Fa molti meno danni. L’uomo oggi è ciò che pensa”.  

Il materialismo che canti caratterizzare il tempo attuale, da cosa riscontri sia generato nonché causato e “motivato”? Tu ti senti mai tentato e/o investito da tale inclinazione (magari persino smodata) ai godimenti terreni e ai piaceri dei sensi, fino a percepirti risucchiato dal consumismo? Per te cos’è davvero essenziale, ciò di cui non puoi proprio fare a meno? “Il materialismo di cui parli è il grande male del nostro tempo. La sua natura è sempre da ricercare in quelle forze ostacolatrici che cercano di rallentare l’ascesa spirituale dell’uomo. Hanno una loro funzione precisa. È proprio l’uomo, tuttavia, che deve redimerle. Ogni individuo ha un suo rapporto personale con queste cose. Io, come tanti, vi lotto contro quotidianamente ma non ne sono, di certo, immune. Personalmente, però, passioni smodate non ne ho. Cerco di starci molto attento. Per darti una risposta “terrena”, non potrei fare a meno di acquistare libri in quantità e di fumare i miei sigari. Pensa che ultimamente ho chiuso il mio account Amazon. L’ho fatto per rispetto verso i lavoratori sfruttati e malpagati. Una piccola scelta individuale che, indubbiamente, non cambierà le sorti di questa azienda eppure che modifica le mie”.   

In tutto questo esperire, come descriveresti la felicità? A riguardo d’essa, credi o no che sia comparabile al punto più alto raggiunto, sino ad un preciso momento, da quanto è una propria priorità nell’arco di un qual certo periodo durante il quale si è presentata alla considerazione d’interesse? Non pensi ossia che la felicità sia semplicemente un picco, per quanto costantemente anelata per la sua notevole intensità, e che perciò non possa essere duratura né quel “capitale garantito” che qualcuno vorrebbe assicurarsi forse più spesso con l’amore? “Per quanto mi riguarda, la felicità non è di questo mondo. Noi qui sulla Terra sperimentiamo delle gioie, delle forme d’amore, di libertà e raramente di compassione. La felicità, per me, sta di là. Solo alcuni uomini sono riusciti e riescono a viverla anche sul piano materiale… Ma si parla di gente molto, molto, molto evoluta. Il “capitale garantito” è sempre figlio di un egoismo sfrenato. Mi arricchisco io e degli altri «chi se ne frega». Devo non di meno ammettere altresì che ci sono ancora persone che, una volta che si sono arricchite, aiutano il prossimo. Non è tutta da buttare questa società. Le parole “capitale garantito” e “amore” comunque non possono stare nello stesso luogo. Sono antitetiche. Bisogna fare una distinzione tra ciò che è figlio di questo mondo e ciò che non lo è”.  

Internet, i social e i reality come influiscono, secondo te, in codesto nostro presente soprattutto per ciò che concerne le relazioni con l’altro? E tu cosa apprezzi e cosa, al contrario, eventualmente ti infastidisce dell’utilizzo della tecnologia? “La tecnologia è un segno dell’evoluzione del nostro tempo. Ha e ci sta risolvendo molti grattacapi. L’abuso che ne facciamo è il vero problema. Il rapporto macchina-uomo oggi è 9 a 4. Siamo entrati nell’epoca del transumanesimo e, se non si starà attenti, si verrà completamente divorati. La nostra individualità è compromessa da questo sistema che noi legittimiamo senza porgli un freno. Stiamo sostituendo la nostra vita reale con quella virtuale e per molti pare che ciò non sia assolutamente un problema, anzi. I social, in larga parte, sono diventati mezzi dove parecchie persone si sfogano o, peggio, mostrano il loro corpo in cambio di like. Lo definirei, edonismo digitale. Ogni notizia è commentata solo per il gusto di dire «Esisto anch’io. Ho un’opinione a riguardo, sono più informato di te». I reality musicali sono l’ultima frontiera dove un giovane prova a mostrarsi al mondo. Gli altri nemmeno li considero. Il mondo della televisione è messo in crisi dalla rete che sta conquistando la totalità dell’attenzione. Si pensi a quanta divulgazione seria si potrebbe fare, ma purtroppo non è così. Il trash imperversa ovunque. Mi infastidiscono la volgarità e la mediocrità di pensiero”.

Appunto per quanto concerne le relazioni con il prossimo, a riguardo di innamoramento ed amore, tu sei (mai stato) sensibile ai colpi di fulmine o, al contrario, per scegliere di accompagnarti ad un’altra persona necessiti di qualcosa in più di una mera attrazione fisica, dettata dal magnetismo esteriore? Ti è capitato di iniziare una frequentazione unicamente sulla scia di un interesse e “richiamo” sessuale, come all’opposto affascinato sol mentalmente e dall’animo di chi ti sei trovato di fronte? “Nell’età della pubertà, sì. È normale. Si vede il proprio corpo cambiare, esso entra nella maturità sessuale e quindi è d’uopo interessarsi in tal senso. Non credo ai colpi di fulmine. Credo, invece, ai colpi e agli incontri del destino. Se due anime devo incontrarsi in un certo giorno, ad una certa ora, in una certa città, accadrà. Quando accade è una benedizione e allora crollano tutti i cliché della pubertà. Sono insieme alla mia compagna da quindici anni. È una bella donna, ma non è per questo che stiamo insieme. Sarebbe crollato tutto già parecchio tempo fa. Mi sento molto fortunato. Mi rendo conto che anche ciò oggi è diventato una rarità”.

Cos’è per te essenziale in amore ed indispensabile affinché un rapporto non si trasformi in mera abitudine e pian piano divenga cenere, unicamente piccoli tizzoni di quanto tanto ha bruciato ma si è ridotto all’arso? “Ci deve essere un’intesa spirituale. Se non c’è, il castello crolla”.

Infine, quali le tue priorità e quali i tuoi prossimi progetti artistici e, perché no, non di meno personali a breve e a più lungo termine? “Nei prossimi mesi sarò in giro per promozione. Per il prossimo autunno spero di poter fare dei concerti. Nel frattempo sto studiando, sempre in termini musicali ma su altri orizzonti”.

Intervista a Giovanni Amighetti in occasione di Ahymé – Festival Interculturale dell’Integrazione

di Giulia Quaranta Provenzano
Oggi vi proponiamo l’intervista a Giovanni Amighetti, con il quale abbiamo fatto una chiacchierata a proposito della realizzazione di Ahymé – Festival Interculturale dell’Integrazione. Ciò nonostante le difficoltà dovute al Covid-19 che, tuttavia, sono state superate grazie all’intesa e al collaborativo impegno tra artisti.

Buongiorno Giovanni! Come si percepisce interiormente come persona ed artisticamente quale produttore e compositore? “Sono un uomo che ha facilità nelle connessioni emotive. Questo determina un mio modo di recepire, vivere e quindi anche di creare in connessione con le altre persone”.

Cosa rappresenta per Lei la musica e quale ritiene essere il potere proprio della Musica e dell’Arte, nonché il loro principale pregio, valore e finalità? “Per come la realizzo io, la musica ha il pregio di essere un linguaggio sia tra musicisti che tra musicisti e pubblico aldilà di limiti dettati da lingue, tradizioni, etnie e sovrastrutture di pensiero. La utilizzo dunque come forma di comunicazione archetipica, che viene prima del linguaggio parlato”.

AHYMÉ – Festival Interculturale dell’Integrazione (link) con quale aspettativa e speranza, proposito ed obiettivo, è venuto alla luce? E vi è un messaggio, nonché imprescindibile urgenza, che Lei vorrebbe sottolineare quale focus portante di tale evento raccontato nel film/concerto girato da Luca Fabbri “INCONTRI SUL PALCO” (video)? “AHYMÉ nasce dalla volontà mia e di Bessou Gnaly Woh di stimolare il senso di fratellanza negli esseri umani e, di conseguenza, è un progetto che ha visto collaborare tra loro musicisti da diverse parti del mondo. Ciò per un risultato comune, senza perdere comunque ciascuno le proprie radici, bensì comunicando ognuno secondo un proprio linguaggio e non adeguandosi a forme importate tipo il blues o una larga parte del jazz. “INCONTRI SUL PALCO” in particolare dacché, essendo stato girato durante il periodo di Covid-19, ha ristretto il focus ai soli musicisti italiani… con interventi, ad esempio, di Fiorenzo Tassinari e Moreno “il Biondo” che provengono dal liscio, Mussida dal prog, Daniele Durante dalla musica tradizionale salentina, Angela Benelli dalla musica classica… Insieme riusciamo a creare nonostante le provenienze stilistiche a volte molto differenti!”.

Integrazione sociale, dal Suo punto di vista, è sinonimo e motore di quale miglioramento nello specifico? “Perdita della paura, paura che é fonte di chiusura e violenze. Un senso di fratellanza porterebbe, al contrario, ad una vita più armoniosa per tutti. L’orticello difeso dalle mitragliatrici e dal filo spinato causa soltanto una vita disagiata, in primis ai proprietari dell’orticello stesso. Inoltre una società che parta da diversi stimoli è sicuramente meno noiosa e autoreferenziale, ha infatti pure input per migliorarsi”.

Ritiene o non Le sembra che le coordinate geografiche, temporali, sociali possano incidere sulla formazione ed azioni/non azioni di una persona? Crede, inoltre, che si nasca come “tabula rasa” o con un patrimonio genetico non solo fisico, ma più propriamente interiore ed intimo ereditato dal passato? “La seconda parte della domanda é davvero molto interessante. Questo argomento é stato fonte di diversi approfondimenti. Io, da differenti esempi, NON credo che si nasca come “tabula rasa”. C’é sia un’eredità fisico-genetica, sia una genetica-comportamentale. Lo vediamo anche in taluni animali che eseguono azioni per istinto, senza aver ricevuto un insegnamento diretto”.

È stato sottolineato che «a causa dell’emergenza pandemica , l’edizione 2020 del festival si è svolta prevalentemente senza pubblico. Il Teatro Asioli di Correggio (RE), lo scorso 26 novembre, ha ospitato a porte chiuse uno spettacolo di musica dal vivo, offrendo la possibilità a tecnici, maestranze e artisti di lavorare». Quale Le pare sia stata la considerazione dello Stato italiano nei confronti degli artisti in piena pandemia dello scorso anno? Lei come ha vissuto emozionalmente il periodo di lock down e cosa ne è conseguito nel Suo caso da questa situazione? “A mio avviso c’é un problema in Italia, rispetto a vari Stati europei, riguardo la ricezione e la comprensione della realtà espressiva. Soprattutto musicale, e lo si può notare anche dall’insegnamento effettivo della materia che avviene soltanto nella scuola secondaria di primo grado. Sia Conte, che il Ministro, hanno fatto diverse gaffe ma il punto é che l’arte in generale non é vista come una necessità reale – bensì come un riempi buchi tra una corsa in ufficio ed una al supermercato. Questa visione miope rischia di rendere gli esseri umani frustrati in tutti i sensi. Ad esempio, nel primo lock down “duro” di marzo 2020 la musica é stata fondamentale per tantissime persone. Lo Stato italiano non é stato però affatto pronto nel gestire le difficoltà dei lavoratori dello spettacolo e nel dare credito a Teatri ed affini, che sono da sempre luoghi con misure di sicurezza (già) molto focalizzate. Al contrario, ad esempio, di Chiese e mercati caratterizzati da effettivi problemi di gestione del pubblico poiché mancanti di esperienza pregressa. La mia esperienza emozionale ha oscillato dal non riuscire, nonostante il tempo a disposizione, a comporre musica positiva al rimboccarmi le maniche per dare un minimo di sollievo, quando possibile, sia agli artisti che alle maestranze con i quali collaboro in Italia. Sono nate, inoltre, nuove collaborazioni che spero di portare avanti in un mondo, tornato, più libero nel prossimo futuro…”.    

Si è posto, non a caso, l’accento sul fatto che «Il docufilm “INCONTRI SUL PALCO” mostra come, nonostante il periodo di restrizioni dovute alla crisi sanitaria, la cultura e la musica non si siano fermati. Gli artisti coinvolti hanno infatti trovato nel Festival, pur a porte chiuse, occasione di incontri, influenze e stimoli creativi che hanno gettato le basi per le proprie produzioni. AHYMÉ ha avuto dunque il ruolo di “laboratorio creativo” in un momento storico in cui artisti e addetti ai lavori sono stati costretti a fermarsi» …Lavorando vicendevolmente a stretto contatto tra notevoli nomi della cultura e dell’arte, ritiene che si venga in qualche maniera “toccati” dall’altrui carisma ed idee quali stimolante linfa creativa vitale ed imprescindibile? “Sì, assolutamente. Il linguaggio musicale é appunto uno scambio, quindi si tratta di personalità che si toccano per creare qualcosa assieme. L’approccio sonoro e una certa calma interiore derivano altresì dal percorso precedente”.  

Purtroppo il genio della pizzica Daniele Durante non c’è più. È diventato, in questo inizio di giugno 2021, un “suspiro suspirando”. Lei che ricordo serba indelebile del direttore artistico del festival La Notte della Taranta, nonché fondatore del Canzoniere Grecanico Salentino? “Di Daniele ho un ricordo principalmente umano, le cene e prove a casa sua e i tanti discorsi che spesso spaziavano oltre il mondo musicale. Era una splendida persona che sapeva vedere “dentro” gli altri. Del suonare insieme invece ricordo i brividi nella parte in crescendo dal Sol di “Solo Andata”, brano che ha scritto con il figlio Mauro su testo di Erri De Luca e si lega ai tentativi di ostracismo verso l’immigrazione sia in partenza che in ricezione”.

Infine, quali le Sue priorità e quali i Suoi prossimi progetti a breve e a più lungo termine? “La mia priorità resta esprimere la musica come dialogo e creazione istantanea. Tralasciando il predeterminato e contattando persone-musicisti con i/le quali creare sul momento musiche capaci di essere a loro volta comunicative. In concreto sto portando avanti una collaborazione in studio e quindi live con Luca Nobis, Jeff Coffin, Petit Solo Diabate, Fiorenzo Tassinari e Valerio “Combass” Bruno che sarà pubblicata come prodotto discografico in autunno. Avremo poi un focus su Wu Fei e donne che si presentino quali artiste complete, visto che socialmente ci sono ancora alcuni limiti in questo senso. Per il lavoro invece prettamente organizzativo Ahymé Festival tornerà a fine settembre”.

Riconoscimento letterario per Giulia Quaranta Provenzano con la poesia “Tempo D’Ossimori”

a cura della Redazione
Giunti i primi risultati del Concorso Letterario “Verrà il mattino e avrà un tuo verso – Poesie d'amore”, la nostra collaboratrice Giulia Quaranta Provenzano è stata scelta per l’inserimento in Antologia. A seguire la sua poesia “Tempo D'Ossimori”, selezionata appunto dalla Aletti Editore per l’omonimo libro “Verrà il mattino e avrà un tuo verso – Poesie d’amore”.

Manca poco alla comunicazione dei finalisti che concorreranno ai premi esclusivi del Premio Internazionale “Verrà il mattino e avrà un tuo verso – Poesia d’amore”, tra cui un fine settimana a Lisbona, e la nostra collaboratrice Giulia Quaranta Provenzano è stata però già selezionata per l’inserimento nell’omonima Antologia del concorso organizzato dalla Aletti Editore.
Presidenti di Giuria il poeta nonché editore Giuseppe Aletti e la giornalista e critica Caterina Aletti, che cureranno l’introduzione al suddetto testo.

Nel volume, contenente le liriche degli autori più rappresentativi della XVIII° edizione del Concorso, sarà possibile leggere il componimento poetico “Tempo D’Ossimori” della trentunenne Giulia Quaranta Provenzano: «Occhi// che piangono/ stelle,/ lacrime e _/ rimpianti/ che si baciano/
nel freddo più buio/ dell’inverno.// Labbra e veleno/ questi; non averti vicino/ Quando non so d’allora/ farne a meno// E pur anelo a te/   

Soltanto// … La luna presto/ abbraccerà di nuovo il sole,/ un giorno, forse, ancora – ed io/ stringerò così te nel tepore d’un dì/ di primavera, mentre anche i ciliegi/ vestiranno la terra dei figli// finalmente».
Il libro Verrà il mattino e avrà un tuo verso – Poesie d’amore sarà messo in commercio da fine novembre 2021 in modo da essere disponibile per il mese di dicembre e poterlo, eventualmente, utilizzare anche come strenna di Natale.

Intervista al talentuoso cantautore Rosaspina

di Giulia Quaranta Provenzano
È con profondo piacere che oggi vi presentiamo il cantautore Raffaele Vigliotti, focalizzandoci sul suo esordio musicale quale Rosaspina. A seguire, quindi, la nostra chiacchierata vertente sul suo primo singolo dal titolo “Sette Coltelli”.

Ciao Raffaele! Il tuo debutto quale Rosaspina è avvenuto il 14 ottobre 2020, con il singolo “SETTE COLTELLI” – https://youtu.be/bc3j7veZ6wo, che è stato descritto quale intimo e fragile ma anche quale brano misterioso e ironico… l’ironia di chi sa di essere macchiato dentro e tuttavia non nasconde la propria personalità e il proprio passato, bensì li espone per essere d’aiuto ad altri. Ebbene tu ti ritrovi in ciò e cioè, anche, da sempre senti terapeutica la musica introspettiva la cui caratteristica – come tu stesso hai sottolineato – è l’intimità in quanto l’introspezione è un processo della mente attraverso il quale un soggetto si guarda dentro esaminandosi in ogni minima sfaccettatura… e, in questo modo, cerca di metabolizzare le proprie esperienze e la propria interiorità? Io sono una persona che tende molto a guardarsi dentro e ad esaminare quel che vive in modo profondo …ovviamente le cose che mi danno emozione”.

Nella tua autobiografica canzone “SETTE COLTELLI”, ripercorrendo l’infanzia, canti «(…) Ella Ella Ella Ella eh/ Un eh/ sono sette coltelli yeah/ Ela Ela Ela Ela eh/ Un eh e sono sette coltelli/ E sono 7 un po’ come le notti/ passate davanti agli specchi/ ho conservato tutti i pezzi/ cresciuto tra streghe e tarocchi/ giuro ho visto il male con questi/ miei occhi». Puoi dirci, ma solo se ritieni catartico condividerlo con noi, che tipo di male hai visto con i tuoi occhi tanto da “inciderti”? Te la senti ossia di raccontare quali eventi violenti e parole pungenti, affilate e taglienti ti hanno macchiato e “segnato” come appunto fossero sette coltelli (e quali pezzi conservi ancora)? “Mi piacerebbe che le persone ascoltassero il mio brano “Sette Coltelli” e si sentissero libere di interpretare…”.

A proposito di tarocchi tu credi nella sorte, e credi che essi siano legati a un’immagine che il destino stesso fornisce dal momento che, interpretandoli nel modo corretto, a parere di taluni se ne possono trarre indicazioni, consigli ed avvertimenti preziosi? O, all’opposto, sostenere di sapere leggere il futuro è solamente superbia, che ammalia coloro che sono troppo deboli con addosso colpe o colpi che siano? Non vedo i tarocchi come verità assoluta; li vedo come una versione in più, alternativa, di come potrebbero andare le cose”.         

E a proposito di esoterico ed incomprensibile (o quasi) ai più, tu pensi che gli esseri umani siano gli unici abitanti dell’Universo oppure che vi siano pure forme di vita di provenienza esterna ed estranea al pianeta Terra? L’Universo è talmente vasto che, perché no, potrebbero esserci altre forme di vita”.

Per quanto concerne poi la rara e stupefacente capacità e propensione all’associazione tra sfere sensoriali diverse, vale a dire la sinestesia che ti è peculiare (tra la pronuncia dei nomi e l’abbinato sapore del cibo), posso domandarti Raffaele Vigliotti a cosa lo associ ed anche Rosaspina? Raffaele mi sa di acqua, insapore ma essenziale. E, a pensarci su, infatti il mio nome rispecchia proprio il significato di Rapha ed El cioè “medicina di Dio”. In Rosaspina, invece, sento dei sapori che tendono al delicato e al contempo all’aspro però non riesco ancora bene a decifrare l’alimento”.

La sinestesia la senti come un utile dono o, al contrario, è per te più spesso e più che altro un inaggirabile fastidio? “La sinestesia non mi ha mai dato fastidio, tranne che quando sono affamato. Sì, essa potrebbe essere un dono tuttavia – nella veste di eventuale supereroe – preferirei avere un potere molto più utile rispetto a codesta concomitanza dei sensi nella percezione”. 

Hai inoltre affermato che «Quando ho iniziato a scrivere “SETTE COLTELLI”, dentro di me affrontavo la guerra più grande di sempre. La mia immagine si rifletteva allo specchio e un giorno quel che ero, in lotta con ciò che volevo essere, si è perso nel mio riflesso che andava in frantumi. Il coccio di vetro più tagliente era diventato un coltello, un’arma per affrontare e combattere i miei demoni. Alla fine di un tunnel fatto di silenziose riflessioni ho capito una verità importante: è proprio ciò che ho vissuto a rendermi la persona che sono oggi». Ordunque come ti sembra di essere stato in passato e come, invece, volevi essere e sei attualmente? In passato ero privo di libertà, mi volevano omologato a ciò che già vi era in circolo. Ora, all’opposto, ho un dono importante che è quello della libera espressione artistica …un domani, riguardandomi indietro, se non dovessi avercela fatta almeno saprò di averci provato veramente”. 

Sbaglio ad ipotizzare che il coccio di vetro più tagliente sia legato alla figura di tuo padre, mentre hai combattuto i tuoi demoni anche in nome e per l’amore che provi per tua mamma? Ella è difatti la forma femminile del pronome personale di terza persona egli, usata solo in forma di soggetto e Ela è nome che, in italiano, significa “Dio è il mio giuramento/la perfezione” ma dio potrebbe essere stato (magari addirittura inconsciamente) usato per indicare chi si considera onnipotente… quindi, se così fosse, ne conseguirebbe altresì una tua visione neppure positiva verso i fedeli/i tuoi parenti paterni o comunque gente che vi rimanda dacché ritengono dio Ela /tuo padre una specie di sinonimo di Ordine, Bellezza ed Armonia da rispettare e venerare… Potresti aver indovinato, non pensavo che qualcuno potesse riuscire a scavare così a fondo nelle e le mie canzoni”. 

Nel tuo brano “SETTE COLTELLI”, si può leggere «E sono sette un po’ come i peccati/ Peccato che io non li rivedo/ da quando ne avevo sette/ quando piangevo di notte/ ma tu non arrivavi se non alle 7/ Ho ancora i segni sulla pelle/ prima chiamavi ma ora niente/ E cosa c’entro con questa gente/ non vi sorrido ma vi mostro i denti/ Ho già sofferto quasi sempre/ sono la mela nel tuo Eden/ Ma tu sei solo una serpe/ È da una vita che aspetto il/ momento di dirvi/ che non vi devo un bel niente (…)». Sono le persone con cui sei cresciuto nel Giardino dell’Eden che adesso ti sei reso conto essere paragonabili e determinate da superbia, gola, avarizia, ira, lussuria, accidia ed invidia? “Come hai detto anche tu, mentre scrivevo “Sette Coltelli” dentro di me stavo affrontando una guerra… la situazione che allora stavo vivendo ha, insieme alla storia legata per l’appunto a “Sette Coltelli”, influito molto in tale testo che ho scritto. Vi sono tante mie riflessioni sorte in quel periodo. Il passato mi ha fornito insegnamenti per il futuro che, in quel momento, per me, erano tutti – come tutto! – in discussione”.    

Vi è qualcuno dei sette peccati capitali che ti rappresenta nel presente, e in passato? E, rimbalzandoti una tua medesima domanda, secondo te è meglio lasciarsi trasportare ed infrangere i 7 peccati oppure scegliere la luce e seguire i dieci comandamenti? Tu, a questo citato bivio, per cosa hai optato attualmente – hai ceduto alle tentazioni che alcuni sostengono siano del Maligno o non credi vi sia dannazione perpetua, a causa d’esse, dopo la morte poiché tutto termina con l’ultimo terreno battito di ciglia? Penso che tutti siano caduti almeno una volta in ciascun dei sette peccati. Nel mio caso in uno in particolare ossia, probabilmente, nell’accidia. Sono una persona molto energica e con tanta voglia di fare, tuttavia sono anche abbastanza pigro …ad esempio, la mattina sarei capace di “mandare a puttane” tutto per cinque minuti in più di sonno… soprattutto visto che sono sempre pieno di impegni e tantissime cose da fare”.

Non posso non ammettere che mi hanno colpito visceralmente i tuoi versi «LUSSURIA 1/3 – Con gli Dei,/ Un patto,/ Prescritto avevano già. Famiglia figlia della Carne…». Tu ti ritieni figlio del solo piacere sessuale? E, pertanto, hai idea che l’unico amore possibile sia l’amor proprio? Io sono il risultato del solo piacere carnale, di certo non sono il frutto del vero amore. Non ho mai visto dei veri e propri esempi d’amore”. 

Nelle scene finali del videoclip del tuo singolo “SETTE COLTELLI”, ti fai interprete delle opere di Francisco Goya dal titolo “Maja vestida” e “Il grande caprone”. Vuoi oggi esplicitare ulteriormente la donna vestita da maja e il sabba delle streghe quali puntuali aspetti rispecchiano dei tuoi racconti appunto di “SETTE COLTELLI”? Ho pensato che i personaggi protagonisti dei citati quadri fossero una perfetta rappresentazione delle persone del mio passato. Senza voler scavare troppo a fondo nel significato, c’è chi si è spogliato della propria purezza e delle proprie credenze e chi ha abbindolato la gente consapevole di saper usare le parole”. 

Infine, hai dei tatuaggi (chissà se a cartolina del passato, memo per il futuro)? E, in caso affermativo, quali e cosa rappresentano e significano per te? “Ho un solo tattoo che feci quando avevo diciotto anni. È una frase sotto l’avambraccio. C’è scritto «Sei la parte di me che nessuno potrà mai portar via» ed è dedicata a mia mamma. Non ho più voluto altri tatuaggi dacché desideravo semplicemente togliermi lo sfizio di provare la sensazione di farmi tatuare, dato che vorrei sperimentare di tutto nella vita, ma ad oggi li preferisco senz’altro sulla pelle degli altri. Potessi tornare indietro non rifarei neanche quello che ho, anche se resta un ricordo che custodirò per sempre e non mi pento di averlo”.

Il settimo capitolo di “Amore oltre ogni confine”, di Giulia Quaranta Provenzano

Proseguiamo oggi con il settimo capitolo di “Amore oltre ogni confine”, il primo romanzo breve di Giulia Quaranta Provenzano. Scritto ed edito nel 2013, con il Centro Editoriale Imperiese, il detto libro ha dato avvio ad innumerevoli altre opere della trentunenne nostra collaboratrice residente in Liguria.   
“Amore oltre ogni confine”
 di Giulia Quaranta Provenzano

7. DOPO UN ASSORDANTE SILENZIO – Arrivò la fine di agosto e Robert, che si era ufficialmente fidanzato con la ragazza alla quale aveva chiesto di ballare alla festa di Leopold, telefonò a Rosalie per invitarla al cinema. A vedere il film ci sarebbe stato lui, la sua fidanzata Susan, Carol (che era la migliore amica di quest’ultima), Leopold ed altri loro ex compagni di classe che lei non aveva più sentito né più aveva incontrato dalla spiacevole serata di due mesi prima. Rosalie non sapeva che decisione prendere. Avrebbe tanto voluto rivedere il complice di molte piccole imprese quotidiane, del quale le mancava anche soltanto respirarne la semplice presenza, ma al contempo temeva una nuova adiacenza. Vederlo avrebbe con ogni probabilità significato riportare più vivamente alla memoria l’immagine della stretta e del bacio che Carol gli aveva rubato, eppure a cui lui non si era sottratto.

Prima di dare una risposta a Robert, Rosalie gli chiese perché era scomparso proprio quando necessitava, come mai fino ad allora, di un conforto amico. Il giovane replicò che non ce l’aveva fatta a trovare parole appropriate per tentare di lenire il suo sconforto e che tante volte aveva però preso la cornetta in mano tuttavia, sentendo dall’altra parte la sua voce mogia, aveva sempre riattaccato subito per timore di far sanguinare una già profonda ferita… o forse solo per codardia, e se ne scusò. Rosalie ribatté domandando se nel suo distacco e prolungato oblio non c’entrasse Susan, se l’essere il ragazzo di una carissima amica di Carol non l’avesse portato a temere nel mostrarsi “schierato” al suo fianco, se ciò non l’avesse frenato magari inconsciamente. Robert assicurò che non era così anche perché quanto successo alla festa, per Leopold, non aveva significato nulla se non un’“avventura”, neppure cercata, che gli aveva fatto perdere l’unica fanciulla la cui compagnia davvero desiderava con tutto se stesso. Alla fine di questa breve chiacchierata, Rosalie decise di accettare l’invito, conscia che bisogna affrontare le sfide che si presentano sul proprio cammino se non si vuole rimanere intrappolati in una paralizzante informità. Quel stringente silenzio che l’aveva frastornata per settimane intere, quei punti interrogativi sui motivi per cui Leopold non l’aveva più cercata e ai quali lei non era riuscita a trovare una ragione, erano stordenti ma sperava che finalmente essi avrebbero trovato una spiegazione convincente e sarebbero dunque svaniti.

Fu nel suo prolungato periodo di solitudine che Rosalie si accorse di come non solo le parole dialogano con le persone e che le ombre talvolta sono ancora più vivide di una nitida immagine rimandata dallo specchio. Comprese che il silenzio è un aspetto fondamentale dell’esistenza che accompagna la realtà e che, in quanto tale, si può parlarne per non venirne pericolosamente risucchiati. Si rese poi conto che, seppure spesso non se ne riesce a discorrere e a discorrerci, è comunque possibile ascoltarlo. Soltanto su ciò a cui si presta orecchio si può riflettere ed unicamente quanto non si vuole scacciare si può elaborare.

Rosalie, nei primi giorni della sua incursione nelle proprie giornate, prese in antipatia il silenzio: non riuscendo a capirlo, la metteva a disagio e lo considerava un estraneo da cui difendersi ignara del fatto che era privo di ogni arma – la sua innocua visita la inquietava e si ritraeva da questa indifesa compagnia. Privata della famigliarità col silenzio, era incapace di ascoltarlo e lo reputava agghiacciante nell’apparente superficiale mancanza di vitalità e comprensibilità. Alla fine, dopo una settimana circa dall’incontro con il coinquilino di tante giornate future, Rosalie capì che non era suo nemico e che doveva soltanto abbattere un muro che lei stessa aveva tirato su. Le fu allora chiaro come non aveva mai ascoltato veramente i propri imi bisogni perché l’udito in mancanza del silenzio non è altro che percezione del rumore, quel rumore che tante volte l’aveva confusa ed aveva annebbiato il suo io costringendola ad abbandonarsi inerme al deforme. Rumore qual dittatore d’uno smarrente, superficiale, spadroneggiare sul sé. Rosalie, incapace di porsi in ascolto del silenzio, si era difatti fatta sopraffare da numerose insicurezze e non era più riuscita ad inseguire il suo sogno, Leopold, ma adesso si sentiva pronta a riprendere in mano le redini d’una sinora sol abbozzata vita.

Quella sera la ragazza dagli occhi che parevano gemme olivastre, indossò un vestitino corto di un tenue lilla, dall’ampia gonna in tulle, ed un paio di sandaletti dorati come la minuscola pochette che teneva delicatamente in mano (anche se l’istinto era di stringerla forte per scaricare, arroccandosi su di essa, la grande tensione che le percorreva il corpo). Ancora prima di arrivare davanti al cinema, Rosalie vide in lontananza che Leopold era l’unico che si trovava già là e sentì un groppo in gola, faceva fatica a deglutire e la saliva le ristagnava tra mille “Perché?!?” come colla appiccicosa. Sul cuore le vibrazioni d’un pesante masso, masso che le dava l’impressione d’ingrandirsi ad ogni istante, fino a schiacciarla, coperta dai detriti provenienti da una profonda fragilità. Il respiro era affaticato perché sfiancato da un tamburellare martellante e lei aveva gli occhi lucidi pur cercando di reprimere il pianto, di respingere indietro le lacrime. L’ansia la stava sovrastando, avrebbe voluto scappare e tornarsene a casa ma ormai quelle due pupille nerissime, color del carbone, l’avevano raggiunta ed era quindi troppo tardi per girarsi indietro.

Quando i due giovani furono di fronte si trovarono visibilmente impacciati, bloccati dal loro stesso irrefrenabile desiderio di abbracciarsi sebbene, però, rimasero immobili. Non sapevano come muoversi, cosa dirsi, non trovavano le parole per riprendere quella speciale amicizia da dove l’avevano interrotta perché ciò non corrispondeva al, reciproco, sentire e pur incapaci di afferrare una volta per tutte l’innaffiatoio che avrebbe fatto sbocciare la precedente frequentazione amicale in amore. La gioia nel vedersi era enorme ma trattenuta da una cortina nebbiosa di frasi mai dette, spezzate a metà e per questo fluttuanti in un limbo di rimorsi, dubbi, esitazioni. L’imbarazzo fu presto rotto dall’arrivo del resto del gruppo. I ragazzi entrarono al cinema e si sistemarono sulle poltrone. Carol, Susan, Robert, Rosalie, Leopold e poi quattro altri amici.

Durante la visione del film, inavvertitamente, le dita di quelli che erano stati fino a qualche mese prima compagni di banco si sfiorarono più volte. Dovevano condividere un medesimo bracciolo e capitò loro di appoggiarvi i gomiti sincronicamente ma, quando erano i loro palmi a toccarsi, subito si ritraevano come a scusarsi per quell’incontro fortuito… in verità, pervasi da un sottilissimo brivido di piacere e sorpresi da un calore che si espandeva fin dentro le ossa, avrebbero voluto intrecciare le loro mani assai a lungo. La volta successiva che Rosalie e Leopold si videro fu davanti ai rispettivi Licei. Lei si era iscritta al Classico, lui allo Scientifico ma i due istituti avevano un cortile in comune.

[Continua…]

Intervista a Dario Iacono, il modello ora anche istruttore di Fitness

di Giulia Quaranta Provenzano
Il 17 maggio il trentunenne Dario Iacono ha ottenuto il diploma da personal fitness trainer da parte della prestigiosa Issa Europe – International Sports Sciences Association. A seguire l’intervista.

Ciao Dario! Quando hai deciso di iscriverti all’ISSA Europe e come mai, con quale intento ed aspettativa? “Ho deciso d’iscrivermi all’ISSA Europe appena dopo il primo lock down dello scorso anno. Il motivo non saprei spiegarlo, semplicemente ho sentito che era giunto il momento”.

Quando e da cosa è nata la tua passione e dedizione al fitness? “Faccio fitness da quando avevo ventisei anni. La mia passione e dedizione [al fitness] è nata da tutte le ragioni più sbagliate di questo mondo… Vendetta. Rabbia. Odio”. 

Il termine fitness deriva dall’aggettivo inglese “fit” cioè «adatto». Ebbene per quale motivo tu ti senti adatto quale istruttore e perché vorresti esercitare tale professione? “Io mi sento più che adatto ad esercitare la professione di istruttore di fitness …vorrei migliorare la qualità dell’aria dei miei clienti e far loro provare gli stessi benefici che il fitness ha dato a me in termini di salute e benessere”.

A proposito di idoneità, capacità, preparazione fisica e stato di forma fisica suggeriti dal termine “fit”, quali sono le caratteristiche indicanti lo stato di benessere fisico di un individuo? “Dipende da individuo ad individuo. Non c’è una singola risposta a questa domanda dal momento che molto sta in base alle esigenze del cliente”.

Come ottenere e mantenere un corretto stato di salute, forma fisica e benessere dell’organismo a partire anche dall’alimentazione? “…Le persone spesso non hanno idea di quanto fondamentale sia l’alimentazione e il saper mangiare. Un nutrizionista, a me, ha cambiato la vita!”.

L’attività di fitness può essere praticata nelle palestre e altresì all’aria aperta. Tu ti senti, però, di suggerire più uno dei due luoghi rispetto all’altro? Ci sono differenze rilevanti in base alla scelta di fare fitness in una struttura al coperto invece che all’aperto e viceversa? “Ci sono differenze enormi tra fare fitness in una palestra piuttosto che all’aria aperta ma, come detto prima, tutto si rimette alle esigenze e agli obiettivi del singolo cliente”.  

Si dice che qualsiasi attività motoria, adatta alle caratteristiche della persona, può essere un mezzo per fare fitness ma come capire cosa è maggiormente adatto a sé? “Questo è un dei compiti del personal trainer, il quale compie analisi e valutazioni per ottenere il meglio per il cliente”.

Tu ami il fitness per una ragione ben precisa? Per esempio perché ostacola il sovrappeso, le malattie metaboliche, l’ansia e la depressione, i problemi osteo-articolari e muscolari, l’invecchiamento o magari quale occasione di socializzazione? “A me piace il fitness in quanto mi ha dato modo di sfogarmi e di realizzarmi. Ho poi ottenuto, grazie ad esso, effetti migliori sulla mia mente più che sul mio corpo”.

Il fluido equilibrio dei Gaze of Lisa

di Giulia Quaranta Provenzano
Vi presentiamo oggi i Gaze of Liza, detti “Gheiz ov Lisa” in quanto il nome di questo gruppo italiano si riferisce al noto quadro di Leonardo da Vinci. A seguire la nostra intervista alla band, in occasione dell’uscita del singolo dal titolo “Bilancia”.

Gaze of Lisa, come nasce e perché questo nome per la vostra band? Il nome Gaze of Lisa fu scelto da un vecchio componente del gruppo e fa riferimento allo sguardo della Monna Lisa…

Come band, quale pensate sia la vostra peculiarità e “punto di forza”? Oltre ad essere “amici di band” siamo anche amici nella vita reale Pierdomenico e Damiano sono persino fratelli! e questo è molto importante perché crea un’“atmosfera” tra di noi di estrema serenità, sintonia e affiatamento. Proprio quest’anno, dopo quasi sei anni, ritorneremo a vivere tutti e tre nella stessa città… Nonostante tutto siamo sempre stati attivi e abbiamo dedicato tanto al gruppo, senza mai dubitare di nulla. Musicalmente parlando, penso che il nostro punto di forza sia il cantare in italiano a dispetto di un genere che generalmente è inteso “all’inglese”.

Cosa rappresenta per voi la Musica in generale e come descrivereste il vostro fare musica in particolare? Potrebbe sembrare una supercàzzola di Tognazzi, tuttavia il fatto stesso di fare musica è una dimostrazione grande di cosa per noi significa la Musica… Non è una cosa spiegabile a parole, diventerebbe banale.

Quale ritenete essere il potere della Musica nonché il suo principale pregio, valore e finalità? Ritenete che nell’arte sia “preferibile” focalizzarsi sul piacevole o che, invece, non sia da disdegnare neppure la riflessione su tematiche scottanti e dolorose, al fine magari di sensibilizzare e migliorare il migliorabile? L’arte, a nostro parere, può essere e deve altresì essere piacevole – che [l’arte piacevole ] non è migliore o peggiore di quella “impegnata” …Nonostante ciò, se si opta appunto per la musica impegnata è fondamentale, secondo noi, che susciti nello spettatore delle domande ma che non sia il musicista a fornire le risposte, altrimenti diviene religione.

Dal 30 marzo è in radio e nei digital store “BILANCIA” [https://youtu.be/d-Wz6UhA_Zh], il vostro nuovo singolo pubblicato dall’etichetta Terzo Millennio. Ebbene con quale aspettativa ed intenzione è venuto alla luce questo brano, e qual è il messaggio che vorreste trasmettere con esso? Non c’è un messaggio preciso che vorremmo trasmettere con “Bilancia” …il brano può essere letto sotto diversi punti di vista, ed anzi, ci piacerebbe che ognuno interpretasse la canzone a suo piacere. Abbiamo scelto tale singolo come primo perché ha, a nostro avviso, un testo interessante – a tratti esplicito, in altri tratti molto meno. “Bilancia” è un brano fortemente ironico e, tutto sommato, orecchiabile… una sorta di dimostrazione del nostro essere passati a scrivere in italiano.

E a proposito di bilancia, qual è il vostro interiore ago della tanto famosa bilancia? …ovvero anche, quali sono le vostre priorità e necessità imprescindibili ad oggi? Nel quotidiano siete, più spesso e per la maggiore, più istinto o ragione e vi sentite “spettatori” od “attori” della realtà quotidiana? Dipende dalle situazioni, certamente se siamo sul palco a suonare ci sentiamo più attori.

Avete affermato come «Non tutto è estremo, esistono anche le vie di mezzo». Dal vostro punto di vista, ossia, una persona non deve necessariamente abbracciare in toto un solo “colore”… Avete difatti ripetuto più volte che«Le idee, il modo di fare e di vivere possono essere un connubio di tante cose, un “equilibrio” tra aspetti diversi». Quali sono le apparenti antitesi del vostro vivere e che percepite, chissà, presenti non di meno nella vostra arte? PIERDOMENICO – All’interno del testo c’è un verso che si rifà ad alcune situazioni che mi sono capitate davvero. Amo molto il gruppo CCCP e, in auto avendo un loro disco, molti dei miei amici mi dicevano «Ma ché, sei diventato comunista?» perché la gente dà per scontato che se si ascolta certa musica allora essa ti rappresenta, che se ci si veste in un certo modo è perché l’indossato ti piace, che se si ha un pensiero X allora appartieni per forza al partito X e così via. Altra mia antitesi riguarda proprio l’approccio alla musica in quanto, pur essendo da sempre immerso nelle note musicali, mi infastidisce quando c’è chi suona di continuo mentre si sta parlando (ad esempio, all’interno di comitive di amici, mi infastidisce chi appena vede uno strumento si mette a suonare per forza …ho tanti cari amici che lo fanno, un po’ per prenderci in giro a vicenda). Penso che tutta la nostra musica [la musica dei Gaze of Lisa] sia in antitesi con se stessa… Ci piacciono i groove funky, ma con chitarre eteree e distese e ci piacciono i riff distorti, però con atmosfere ambient e drums machine. CARMELO – Mi piace vivere di estremi, i cambi repentini e le emozioni forti che questi portano con sé. Antitesi è il semplice rispondere alla propria identità, cosa che forse esternamente è vista come disordine. In realtà, ognuno ha il proprio concetto di equilibrio… il mio è inteso come un continuo oscillare, una risposta dinamica alle pulsioni della vita, i cui effetti finiscono per annullarsi tra loro e raggiungere dunque una qual certa forma di equilibrio. È giusto avere delle proprie idee, tuttavia senza dimenticare che si può poi pensare pur l’esatto contrario. È giusto tutto questo, se fatto in maniera matura e consapevole. È giusto cambiare le proprie opinioni, non di meno con il vincolo di rimanere di continuo fedeli a se stessi.Solo così si può raggiungere realmente un equilibrio, interiore e no. DAMIANO – La mia vita è in costante antitesi. Essendo una persona “ibrida”, che ama fare, pensare e sperimentare cose molto diverse fra loro (che magari non hanno nulla in comune) spesso vengo considerato un giorno un determinato tipo di persona e il giorno successivo l’esatto opposto.

Avete spiegato inoltre che «“BILANCIA” è un brano contro le omologazioni, che si propone di raccontare la “triste” sorte di chi non riesce a riconoscersi all’interno di un unico gruppo di appartenenza e a vivere, quindi, nella cosiddetta zona grigia» …Il non omologarsi, talvolta, porta al venir discriminati. La discriminazione di genere, per citare uno dei vergognosi temi di cronaca sovente derivanti da preconcetti infondati, è una bruta realtà che purtroppo investe molti tra i quali per esempio anche le donne o all’opposto non riscontrate tutto questo? Donne, e non soltanto, vittime di violenza come se il sesso di nascita comportasse doverose peculiarità, categoriche e categorizzanti, di genere; donne perseguitate da imposizioni secolari e non ancora desuete e da restrizioni, tanto per dirne una, in ambito lavorativo pertanto discriminazione che riporta il nostro discorso all’oppressione e ai maltrattamenti in nome di sovrastrutture che fanno forza sul mancato diritto che ogni persona dovrebbe effettivamente avere di manifestare, sviluppare e mostrare se stessa senza per questo venir appellata quale spregevole e violentata nella personale libertà da una morale immorale o non convenite con me su ciò? Come anticipato prima, “Bilancia” può essere letto in differenti maniere, anzi auspichiamo che ognuno possa trovarvi – all’interno del brano – un proprio significato, che lo renda personale. Detto ciò, siamo onorati che una nostra canzone ti abbia rimandato ad una tematica estremamente importante come quella dei ruoli sociali legati al genere. A riguardo, crediamo che negli ultimi anni ci siano stati notevoli progressi. Questa è la via giusta da proseguire a percorrere, cercando però di non perdere l’obiettivo finale [ancora lontano] perché non siamo giunti alla fine dell’iter. Tuttavia, ci sembra comunque che spesso queste tematiche vengano affrontate con superficialità, banalizzando e pensando che basti una foto sui social con una didascalia piena di retorica per porre termine a tutto e sentirsi apposto con la coscienza. Aprendo i social, la maggior parte della gente sembra che sia di grandi paladini della giustizia, ma nella vita reale sono tante meno le persone che fanno qualcosa di concreto.

Come descrivereste la libertà? È possibile essere veramente liberi, la libertà ha cioè una fattibile declinazione concreta? Libertà, a nostro parere, è prendersi la responsabilità delle proprie azioni e delle proprie idee. Insultare mezzo mondo nascondendosi dietro a «Vi è libertà di parola, posso dire quello che voglio!» e poi non affrontare le conseguenze di quello che si è detto è assolutamente ridicolo. Parlare per frasi fatte e per sentito dire, e non avere idee personali su ciò di cui si sta discutendo è la morte della libertà. La nostra vita è un ago della bilancia, che oscilla tra l’essere attori e spettatori, è come il freno e l’acceleratore di un’auto, il giorno e la notte, tutto va avanti e cammina grazie all’equilibrio dei due. Pretendere di voler vivere sempre da “attori” o da “spettatori” non è essere liberi, paradossalmente si è schiavi di una propria imposizione, si sta dando per scontato che in ogni situazione ci si debba comportare sempre e solo in quel modo ovvero non valutando le circostanze e, di conseguenza, non essendo più responsabili di se stessi.

Per affinità tematica, circa l’argomento relazioni con sé e con gli altri, comportamenti manifesti o no e sovrastrutture sociali ed ereditate dal contesto e dall’educazione ricevuta etc., notate che vigano nel presente alcuni tabù a cui, chissà, neppure voi siete “immuni”? Inoltre, per quel che concerne schemi e pregiudizi vigenti in società, qualcuno di questi vi ha – anche soltanto per un certo lasso di tempo – toccato da vicino e condizionato in prima persona? Se sì, su quale fronte e a riguardo di cosa? DAMIANO – Penso che nessuno sia immune dai tabù, e credere che ci sia una categoria di persone che lo sia significa cadere nella trappola “banalizzare il mondo” …certamente alcune categorie possono “subire” meno di altre, in determinati contesti. PIERDOMENICO – Non ho mai subito un pregiudizio eccessivamente forte nei miei confronti, fortunatamente… però da meridionale emigrato posso dire che, molto velatamente, se c’è l’occasione di fare la battuta sul “meridionale sempliciotto” di certo nessuno se la lascia sfuggire. CARMELO – È difficile crescere in un ambiente senza pregiudizi, velati o meno. Una delle cose che mi rende maggiormente felice è abbatterli, capendo in prima persona, grazie ad esperienze, racconti, viaggi, interazioni, quanto spesso ci si lascia condizionare dai pensieri altrui tanto da finire per agire in modo sbagliato, senza esserne consapevoli. La soluzione, probabilmente, è non smettere mai di imparare. Il risultato sarà vivere meglio con gli altri, e soprattutto con se stessi.    

Quali sono i tabù che desiderereste cercare di abbattere e neutralizzare con urgenza? E secondo voi, com’è possibile riuscire a non sopprimere mai la propria voce interiore per codardia, abbagliante convenienza materiale, paura dei giudizi altrui e dare, all’opposto, libera espressione ai propri pensieri e alle proprie sensazioni senza sentirsi, pur e per quanto sol inconsciamente, tiranneggiati da schemi e pregiudizi di varia natura? Prima di rispondere seriamente, abbiamo notato che un tabù  che è molto presente è il denaro. Quando capita di fare dei lavori per dei clienti o quando siamo noi i clienti arriva sempre quel momento imbarazzante in cui si deve chiedere il prezzo o dire qual è la cifra da ricevere, e non capiamo mai il perché! In ogni caso, seriamente, i tabù sono qualcosa di parecchio personale e non sappiamo neanche noi se effettivamente riusciamo ad essere ogni volta noi stessi al 100%; visti dal di fuori, con ogni probabilità, no.

Quali i vostri prossimi progetti artistici e personali, a breve e a più lungo termine? E a quale inedita cognizione vi ha, se vi ha, condotto il 2020 e vi sta conducendo il 2021? Il 2020 è stato un anno intenso per noi, abbiamo terminato le registrazioni del disco e pianificato progetti per il futuro sia come gruppo, che come singoli. Il 2021 sarà ricco di uscite… ad aprile il videoclip di “Bilancia” [https://youtu.be/d-Wz6UhA_Zk],e una live session chiamata “Pigiama Session”, organizzata da «L’angolo di MuMa», durante la quale abbiamo eseguito quattro dei brani presenti nel disco (con addosso il pigiama). Poi ci sarà un secondo singolo e a settembre finalmente il disco “Sinonimi Contrari” …Dopo di che speriamo di poter ritornare a fare concerti.