La Capra Enoica (Fabrizio Capra)
Sono poche le regioni italiane dove non ho mai messo piede, nemmeno per una fugace apparizione (a pensarci bene nemmeno di passaggio, senza sosta o guardate solo dal finestrino di un’auto o del treno), e si contano sulle dita di una mano, cinque in tutto.
Una di queste regioni è la Calabria: non ci sono mai stato non per avversione verso questa regione o nei confronti dei suoi abitanti ma esclusivamente perché non ne ho mai avuto occasione, ne a livello personale ne per motivi di lavoro.
Anzi ho molti amici calabresi che mi hanno più volte decantato la loro terra facendo più volte sorgere in me la voglia di visitarla e “assaggiarla”.
Come affermo sempre, sognare non costa nulla e per ora mi limito a sognare quanto i miei amici mi hanno fatto apprezzare e quanto le immagini che la tecnologia informatica mi ha donato visivamente.
Così l’amico Mario, cultore del peperoncino e referente in provincia di Alessandria dell’Accademia del Peperoncino, mi ha stuzzicato con questo prodotto (che tanto apprezzo) componente essenziale della cultura calabrese.
L’adorato peperoncino che ho gustato (e gusto tuttora) in vari modi (ha proprietà fantastiche, devo dire a chi si occupa della rubrica del Benessere Naturale di parlarne) però il mio ricordo corre a tanti anni fa in Fiera a Milano, in un evento dedicato al settore eno-gastronomico, di aver assaggiato un delizioso liquore prodotto artigianalmente in Calabria a base di cioccolato e peperoncino, qualcosa di veramente spettacolare tanto è vero che mi pare ancora oggi di conservare nel palato quel gusto dolce-piccante.
E citando il peperoncino come si fa a non ricordare la mitica “n’duia”, sia da fare a fette sia in pasta, ottima e versatile.
Poi c’è il suo olio d’oliva, così deciso e schietto, proprio come la gente calabrese, così com’è la Calabria: dolce a livello del mare, dura e aspra nel suo entroterra.
E come la locomotiva gucciniana “corre corre” il mio ricordo, corre in questi luoghi visitati con la mia mente ma non con i miei occhi.
Del resto ci sono romanzieri famosissimi che hanno raccontato il mondo senza mai muoversi dal proprio salotto di casa, allora me lo posso permettere anch’io di vivere una regione senza mai averla visitata? Una sorta di Salgari enoico.
E come viverla al meglio se non attraverso i riflessi, i colori, il sapore, il profumo di uno dei suoi vini più significativi e rappresentativi: il Cirò, un vino conosciuto già da inizio VIII secolo a.C. quando dei coloni greci approdarono sul litorale calabrese fondando Krimisa, il cui nome deriva da una colonia greca – Cremissa – dove sorgeva un importante tempio dedicato a Bacco, dio del vino.
E che il vino abbia proprietà terapeutiche lo sostengo da tempo (di fatti quando a inizi anni ottanta del secolo scorso frequentavo le montagne valdostane con gli amici chiamavamo il vino la “medicina”, mentre la grappa era stata battezzata come “antigelo”) e il Cirò veniva utilizzato come un “sicuro cordiale per chi vuole recuperare le forze dopo una lunga malattia” e inoltre è “tonico opulento e maestoso per la vecchiaia umana che vuole coronarsi di verde ancora per anni”.
E quando, tempo fa, “rovistando” tra le bottiglie in un supermercato mi sono ritrovato tra le mani proprio una di Cirò rosso e non ho potuto fare a meno di portarla a casa (previo pagamento alla cassa) insieme alla sua storia e alla sua cultura e ne sono rimasto stregato.
Ho letto anche qualcosa su questo vino e alcuni aspetti storici mi hanno particolarmente entusiasmato.
Come ho già detto furono i coloni greci che diedero origini al “Krimisa”, antenato del Cirò, che divenne il vino ufficiale delle Olimpiadi antiche e Milone di Crotone, vincitore di ben sei olimpiadi, di questo vino ne era un grande estimatore (che fosse stato il doping di allora?) offerto agli atleti che tornavano vincitori. Secoli dopo, nel 1968, a Città del Messico, il Cirò tornò vino ufficiale delle gare olimpiche moderne (non lo stesso vino dell’epoca di Milone, quello delle ultime vendemmie… almeno spero).
Mi ha colpito anche il fatto che per trasportare questo vino dalle colline di Sibari fino al porto, dove veniva imbarcato, sembra che furono costruiti “enodotti” con tubi in terracotta: geniale! e pensare che nello scritto di economia agraria all’esame di maturità analizzando un allevamento proponevo, per le aree montane, la costruzione di lattodotti e non sapevo che i greci ci erano già arrivati per il vino (ma questi greci sono proprio gli antenati di quelli di oggi?).
Ripensando a questo vino splendido insieme alla gustosa cultura gastronomica della terra dei Bruzi (o Bruttii che dir si voglia), mi rimembrano nella mente le parole di Joseph Victor Widmann, critico letterario e romanziere svizzero, che nella seconda metà dell’Ottocento scrisse: “In genere in Calabria non si può tener conto della propria dieta. I cibi vengono preparati per bene. Però il vino! Mai durante i miei viaggi ne ho bevuto di migliore. E solo il pensiero della poca garanzia che avevo di farlo arrivare in Svizzera mi distolse dal comprarne un’intera botte. Era un vino rosso che mentre veniva versato brillava di un colore brunastro e che ricordava come gusto un eccellente Bordeaux”.
Concludendo non potevo che citare Giacomo Tachis, l’enologo di fama internazionale scomparso qualche anno fa, riportando un suo commento sulla viticoltura meridionale e pertanto anche quella calabrese: “Sulle vigne del Sud splende il sole, il cielo è quasi sempre azzurro, e le uve maturano. In contrapposizione con le brume ed i grigi mattini del Nord. Bordeaux compreso”.
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